lunedì 30 novembre 2009

Alice nelle città


Alice nelle città (Alice in den Städten, 1973). Regia di Wim Wenders (1973) Sceneggiatura: Wim Wenders con la collaborazione di Veit von Fúrstenberg - operatore: Robert Müller - montaggio: Peter Przygodda - suono: Martin Müller- musica: The Can, con brani dei Canned Heat, Rolling Stones, e Chuck Berry live in concert - interpreti: Rüdiger Vogler, Yella Rottländer, Lisa Kreuzer. Edda Köchl, Didi Petrikat, Enst Boehm, Hans Hirschmuller - produzione: P 1 im Filmverlag der Autoren e WDR - 16 mm., B/N, 110 min.

«Durante la lavorazione di “La lettera scarlatta” ebbi modo di girare una breve scena tra Rüdiger Vogler e la piccola Yella Rottländer. E’ stato un momento molto bello, in cui mi sono detto: “resisti, perché se il cinema è come questo giorno di riprese, può dare anche molta gioia.”» (Wim Wenders, da “Stanotte vorrei parlare con l’angelo”, UbuLibri 1989)
Una giovane donna lascia sua figlia nelle mani di uno sconosciuto, all’aeroporto. E’ una cosa che fa un po’ impressione, ma poi si pensa che è un film, e nei film queste cose succedono. E, soprattutto, lo sconosciuto è Rüdiger Vogler: è vero che sembra un po’ un barbone, sicuramente è un capellone e forse ha un po’ fumato, ma si capisce subito che è buono come il pane e che uno così la bambina potrà solo viziarla, e coccolarsela un po’ senza darlo troppo a vedere. E poi Alice, la bambina, è bella tosta; i due insieme fanno una bella coppia.
I tedeschi hanno spesso dei nomi difficili: se Rüdiger Vogler vi suona ostico, sappiate che la bambina (sette anni ) si chiama Yella Rottländer. Rüdiger Vogler è un classico, per i film di Wenders. Quando c’è da bighellonare, quando Wenders è di buon umore e ha del tempo da perdere, quando vuole girare un film rilassandosi, sceglie Vogler come protagonista. Lo fa, per esempio, in “Nel corso del tempo” (forse il suo film più bello) e lo farà vent’anni dopo in “Lisbon Story”, con Vogler ormai spelacchiato e invecchiato ma sempre simpatico e sempre un po’ sbiellato come all’inizio.
E’ un film di viaggio, e l’episodio della madre che abbandona la figlia è solo un espediente narrativo per mettere insieme questa bella coppia adulto-bambina, che in parte si rivedrà in “Paris Texas” (ma lì si tratta di un padre e di un figlio). Con il pretesto di riportare a casa la bambina, che non si ricorda nemmeno il nome della città (o forse fa finta, perché quel papà improvvisato le piace un mondo), anche noi giriamo la Germania, un po’ in treno e un po’ in macchina.
E’ uno dei capolavori di Wenders, dove le immagini (e i volti, e le situazioni) prendono il sopravvento sulla storia, e dove il saper vedere è fondamentale. A questo punto confesso che da ragazzo, sui sedici anni, avevo fantasticato sull’idea di imparare a fare film, perché mi sembrava di avere delle cose da dire; ma poi mi sono reso conto, guardando “Nel corso del tempo” e poi gli altri film del regista tedesco, che Wenders esprimeva esattamente quello che io avrei voluto dire, e in modo molto migliore di quello che avrei mai saputo fare io. E’ da trent’anni che, con ricorrenza quasi periodica, ogni tanto passo delle settimane a rivedere i film di Wenders; e gliene sono sempre grato, anche se – a dire il vero – il grande regista da un po’ di tempo in qua ha tirato i remi in barca, e i suoi ultimissimi film non sono più belli come i primi.
“Alice nelle città” l’ho visto tardi, ma è diventato subito uno dei miei preferiti; il suo bianco e nero oggi appare un po’ liso e consumato dal tempo, ma ci si fa subito l’abitudine e mi piace sempre come la prima volta. E per il protagonista provo anche un po’ d’invidia, perché una figlia – e soprattutto una bambina così -l’avrei voluta avere anch’io e invece non è mai arrivata.
Una delle curiosità di questo film è vedere il protagonista che fa una montagna di foto con una macchina Polaroid a sviluppo immediato, un modello che nel 1973 era appena uscito. “Fai tante foto perché non sai chi sei, e alle volte dubiti persino di esistere – dice un’ex fidanzata al protagonista, all’inizio del film – Le foto ti servono per convincerti che sei stato in quel posto, e che c’eri davvero.”. Una considerazione molto dura: sta di fatto che, da quando incontra la bambina, il nostro eroe smette di fare foto e la macchina fotografica scompare dal film: sarà proprio Alice a farglielo notare.
“Polaroid über alles”, verrebbe da dire: e chissà cosa ne pensano i sedicenni di oggi, davanti a una simile ferraglia, ma allora era una novità ed era giusto giocarci. Wenders ha sempre avuto questo gusto di mettere le novità tecnologiche nei suoi film, e il risultato è che oggi sono le parti più invecchiate. Rivedere “The end of violence” (Crimini invisibili, 1997) o “Fino alla fine del mondo” (1991) oggi dà una strana idea di antiquariato che all’epoca della loro uscita non c’era, anzi tutti i recensori facevano la gara a dire come è moderno questo Wenders, come è avveniristico. Ma il progresso tecnologico si è mosso così veloce che i gadgets modernissimi del 1997 oggi danno solo la misura del tempo che è passato.
Il film contiene anche tre invettive potentissime contro la pubblicità che interrompe film e canzoni: siamo nei primi anni ’70, in America era normale ma da noi Mr. Spot non era ancora arrivato.
Le musiche sono dei Can, uno dei gruppi tedeschi (con i Popol Vuh, che lavoravano con Werner Herzog, e i Kraftwerk, i Tangerine Dream e molti altri) famosi nei primi anni ’70. Sono musiche delicate, molto piacevoli ed evocative, che ci accompagnano per tutto il film. Ma Wenders mette sempre molto rock nelle sue colonne sonore: qui ci sono due classici ancora oggi famosissimi come “Smoke on the water” e “I’m on the road again”, e, come bonus, un Chuck Berry live in Wuppertal: una notizia che farà piacere agli appassionati del vecchio rocker.

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