martedì 19 gennaio 2010

Fitzcarraldo

Fitzcarraldo (idem, 1982) Scritto e diretto da Werner Herzog. Fotografia: Thomas Mauch. Musica di Giuseppe Verdi, Giacomo Puccini, Vincenzo Bellini, Richard Strauss. Musiche originali: Popol Vuh. Interpreti: Klaus Kinski, Claudia Cardinale, José Lewgoy, Miguel Angel Fuentes, Paul Hittscher, Huerequeque Enrique Bohorquez, Grande Otelo, Peter Berling, David Pérez Espinosa, Milton Nascimento, Ruy Polanah; tribù amazzoniche Ashininka-Campa del Rio Tambo e Machiguengas del Rio Camisea. Durata:158 minuti

«Cayahuari-Yaru. Così gli indios della foresta chiamano questo paese, il paese dove Dio non riuscì a portare a termine la Creazione. Essi credono che Dio tornerà soltanto dopo la scomparsa degli uomini, per completare la sua opera.»
Così si apre il film, con una citazione che Herzog ci mette davanti, e che è decisamente impegnativa. Più avanti nel film, il protagonista si troverà a parlare con un missionario, un frate francescano che gli racconterà qualcosa delle credenze degli indios che sta per incontrare: gli indios credono che noi siamo un’illusione, e che i sogni sono la realtà. Questa risposta a Fitzcarraldo piace moltissimo, e il suo volto si illumina.
Siamo agli inizi del Novecento, e Brian Sweeney Fitzgerald, “re delle imprese inutili”, come viene sbeffeggiato ad un ricevimento, (la Ferrovia TransAndina ferma nella foresta vergine, la macchina per produrre il ghiaccio: a chi può servire il ghiaccio in Amazzonia?) ha un sogno: costruire un teatro d’opera a Iquitos, il piccolo paese dove vive. Non è una cosa così assurda: a Manaus, in piena Amazzonia, non molto distante, ne è stato costruito uno splendido, identico a quelli europei. Per realizzare il suo sogno, Fitzcarraldo (così lo chiamano gli indios, che non riescono a pronunciare il suo nome) decide di entrare nella produzione del caucciù.
Gli viene spiegato che le foreste dove ci sono le piante di caucciù sono state già tutte assegnate; il governo del Perù, nei pressi di Iquitos, ha ancora una zona libera, ma solo perché in quel tratto ci sono delle rapide spaventose e degli indios sanguinari. Fitzcarraldo non si fa fermare da queste cose, e con l’aiuto di Molly, tenutaria di un bordello di lusso (Claudia Cardinale) compera l’area libera e una nave, assolda un equipaggio e parte per l’impresa. La nave, battezzata Molly-Aida, è bella, bianca, grande, una nave da passeggio più che da trasporto; e l’equipaggio è un po’ troppo raccogliticcio, ma si parte lo stesso.
“Fitzcarraldo” di Werner Herzog è un film giustamente leggendario. La sua lavorazione impiegò un tempo interminabile, e di recente è stato pubblicato il diario che Herzog tenne durante la sua lavorazione (“La conquista dell’inutile, diario 1979-81”, Oscar Mondadori.) E’ un’impresa anche il solo vederlo: due ore e mezzo, molto dense e piene.
Il film, epico e realistico allo stesso tempo, è davvero sbalorditivo; e non è una parola che sto usando a caso perché non so ancora oggi cosa pensarne: di finto non c’è niente, in quello che si vede. E’ tutto vero: la nave ha davvero salito la collina nel corso delle riprese, la collina è stata davvero sbancata, il fango, le tribù amazzoniche, è tutto vero. Anche gli attori hanno dovuto lottare nel fango, anche Herzog. E’ vera persino l’ostilità degli indios verso Klaus Kinski: nel suo commento Herzog racconta che gli indios che vediamo nel film sono di una tribù che viveva molto appartata, con pochi contatti con il resto del mondo. Abituati a vivere nella foresta, parlavano sempre sottovoce, quasi in un sussurro; e non sopportavano gli urli e le scenate di Kinski.
In questo film Klaus Kinski appare molto più umano del solito, i suoi famosi “ghigni spaccaobiettivo” sono ridotti al minimo, a tratti (all’inizio soprattutto) assume perfino una posizione sottomessa, da cane bastonato, forse un retaggio del Woyzeck girato sempre con Herzog. Le esplosioni di follia di Kinski durante la lavorazione fanno anch’esse parte della leggenda: ed è lo stesso Herzog a raccontarle, con affetto, nel film omaggio che ha dedicato al suo attore di riferimento, “Il mio nemico più caro”.
E’ un film che può ricordare molto Apocalypse now, ma la realtà è diversa: fu Coppola ad ispirarsi ad un film precedente di Herzog, “Aguirre furore di Dio”. La risalita del fiume è identica, e anche Fitzcarraldo, come Aguirre, è girato nei grandi fiumi amazzonici, dentro la foresta vergine. Viene da pensare anche a “Incontri ravvicinati” di Spielberg: Fitzcarraldo comunica con la musica, con i dischi di Enrico Caruso affascina gli indios. Anche gli indios sono alieni, forse: ma più che la musica ad affascinarli è la meravigliosa nave bianca.
A Fitzcarraldo la gente vuole bene: quando in un accesso di follia sale sul campanile della chiesa e vi si barrica dentro, sono i bambini che lo “salvano”: si mettono fuori dalla prigione e non se ne vanno più, e anche i carabineros si arrendono e lo lasciano andare, tanto più che non ha fatto del male a nessuno. E, quando ci sarà da compiere l’impresa, Fitzcarraldo riuscirà a conquistare gli animi di tutti, anche degli indios.
Fitzcarraldo riuscirà solo in parte nella sua impresa: non costruirà il teatro, ma riuscirà a portare una vera compagnia d’opera, orchestra compresa, ad Iquitos. A Manaus esiste per davvero un grande teatro d’opera, tuttora funzionante, che fu fatto costruire dai commercianti locali diventati ricchi con la produzione del caucciù; Iquitos era all’epoca dei fatti raccontati una città ancora da costruire, e la storia che viene raccontata in questo film ha un fondamento di verità, perché una persona molto simile a Fitzcarraldo è veramente esistita. La realtà, come si può immaginare, pare che sia stata molto più semplice: ad essere portata sopra la collina fu una barca più piccola, e venne smontata. O, almeno, così si racconta: siamo al confine fra mito e realtà, e Werner Herzog ne approfitta per rendere la storia ancora più ricca e più strana.
In Venezuela è stata davvero avviata una scuola di musica, nata per togliere i bambini dalla strada. Fu fondata da Josè Abreu, un ricco signore che invece di spendere i suoi soldi in automobili e yacht, o magari in escort e ville in Sardegna, ha pensato ai bambini che vivevano in strada. Esiste dal 1975, quindi da qualche anno prima della realizzazione di questo film: anche quella di Abreu poteva essere un’impresa impossibile, come quella di Fitzcarraldo: e invece ha funzionato, sono già molti gli strumentisti e direttori d’orchestra provenienti dalla fondazione di Abreu che suonano e dirigono qui in Europa, nelle grandi orchestre e nei nostri teatri maggiori. Forse Herzog ne aveva visto gli inizi, perché (30 anni fa) già metteva in mano un violino ad uno dei bambini che seguono Fitzcarraldo: ne escono suoni discutibili, ma è così che si comincia.
E’ un pensiero che mi sorge spontaneo guardando la nave di Fitzcarraldo arrancare nelle acque dell’Amazzonia, col fonografo che manda la voce di Caruso: la nostra grande tradizione, oggi, è quasi tutta in mano a stranieri. E che stranieri: mica svizzeri o francesi, o magari jugoslavi, ma coreani, cinesi, giapponesi, e adesso indios dell’Amazzonia o loro discendenti più o meno diretti (come il tenore Juan Diego Florez, il direttore d’orchestra Gustavo Dudamel o il primo violoncello dei Berliner Philharmoniker, e tanti altri). La stessa cosa succede, per chi non lo sapesse, in altri campi: per esempio, il Parmigiano Reggiano è prodotto quasi esclusivamente da Sikh dell’India. Sono loro che mungono le vacche, che le curano, che raccolgono il latte. Senza i sikh non avremmo il Parmigiano-Reggiano, il futuro della nostra tradizione è nelle loro mani, e i Sikh col turbante sono numerosi, a Reggio Emilia.
Viene quindi da chiedersi che cosa si intenda per tradizione, una parola che viene tirata spesso in ballo da chi non sa di cosa sta parlando: vittima preferita, parlando di opera, è quasi sempre il coro dal Nabucco di Verdi. Dopo gli sproloqui di chi lo vorrebbe inno nazionale ma non ne conosce nemmeno le parole e il significato, ecco in questi giorni uno spot che lo stravolge e lo banalizza come se fosse un jingle qualsiasi. E purtroppo al peggio non c’è mai fine, basta aspettare e guardare cosa succede – io ho sempre votato contro, purtroppo di più non potevo fare.
A sporcarsi le mani, e a portare avanti la nostra tradizione, sono dunque degli stranieri venuti da terre e tradizioni lontanissime; noi mangiamo il parmigiano-reggiano, i pizzoccheri e la polenta, ecco il nostro contributo. Chiedo scusa per il volo pindarico e il collegamento - un po’ azzardato - tra il film di Herzog e tutto il resto, ma anche di queste cose vive il cinema.
E rivolgo un inchino ai due pazzi che hanno compiuto l’impresa, Klaus Kinski e Werner Herzog: dei “pazzi” e dei visionari abbiamo un gran bisogno, al cinema, e non so chi dei due fosse più sano di mente, in quel 1979-1981, ma questo è un film indimenticabile.
PS: un anticipo di “Fitzcarraldo” si può forse trovare in “La follia di Almayer” di Joseph Conrad (1895) romanzo molto bello e molto famoso; non so se Herzog lo abbia mai letto, ma è più che probabile. Il libro è ambientato in Malesia e nel Borneo, in quelle che allora erano le colonie olandesi, e racconta della storia d’amore fra un giovane malese e la figlia di un olandese. L’ambientazione è diversa, ma la foresta vergine evocata da Conrad non è molto diversa da quella dell’Amazzonia. In questo breve estratto, i protagonisti non si vedono: c’è il rajah che si rivolge ad un suo ministro. Il brano che si ascolta nel libro è il “miserere” dal finale del Trovatore di Giuseppe Verdi.
(...) «Babalatchi», disse il rajah all'esausto statista, «vai a prendere la scatola di musica che il capitano bianco mi ha regalato. Non riesco a dormire». A quest'ordine una profonda ombra di malinconia calò sui lineamenti di Babalatchi. Con riluttanza andò dietro la tenda e riapparve quasi subito portando fra le mani un piccolo organetto, che sistemò sul tavolo con un'aria di grande abbattimento. Lakamba si accomodò meglio sulla poltrona. «Gira, Babalatchi, gira », mormorò a occhi chiusi. La mano di Babalatchi afferrò la manovella con l'energia della disperazione, e mentre girava, la profonda tristezza sul suo volto si mutò in un'espressione di sconforto e rassegnazione. Attraverso le imposte aperte le note della musica di Verdi fluttuarono sul grande silenzio che aleggiava sul fiume e sulla foresta. Lakamba ascoltava a occhi chiusi e con un sorriso rapito; Babalatchi girava, a e sonnecchiando e barcollando, poi si riscuoteva con grande spavento dando qualche rapido giro di manovella. La natura dormiva di un riposo esausto dopo il tremendo tumulto, mentre sotto la mano incerta dello statista di Sambir, il Trovatore sobbalzando piangeva, gemeva , diceva addio alla sua Leonora, più e più volte in un lugubre girotondo di lacrimose e incessanti ripetizioni.
(Joseph Conrad, La follia di Almayer, capitolo VI – traduzione di MT Carbone, ed.Garzanti)

4 commenti:

Christian ha detto...

Che film! Uno dei miei preferiti... Fai bene a usare parole come "leggendario" e "indimenticabile". E' davvero una pellicola larger-than-life, che sullo schermo mostra tutta la potenza della propria lavorazione. Per me è il capolavoro di Herzog, che pure di cose belle ne ha fatte. Grandioso Kinski, ma magnifica anche la Cardinale.

Giuliano ha detto...

Non è finita qui, devo ancora mettere il post sulla musica!

Anonimo ha detto...

l'ho visto ieri l'altro.
fantastico veramente.
qualcuno sa che fine ha fatto il quadro che ritrae kinski e la cardinale? ce ne sono almeno delle riproduzioni?

Giuliano ha detto...

Herzog dovrebbe avere un sito ufficiale...anche Claudia Cardinale, credo.
O magari da Nastassja Kinski? chissà!
:-)