sabato 27 febbraio 2010

Veduta di Delft

Nosferatu, Phantom der Nacht (1979) Scritto e diretto da Werner Herzog Tratto dal film omonimo di F.W. Murnau (1922) e dal romanzo “Dracula” di Bram Stoker (1897), Fotografia: Jorg Schmidt-Reitwein Scenografie e arredi di Henning von Gierke e Ulrich Bergfelder Costumi di Gisela Storch Trucco per Klaus Kinski: Reiko Kruk Effetti speciali: Cornelius Siegel Musica: Florian Fricke (Popol Vuh), Richard Wagner, Charles Gounod, Vocal Ensemble Godela (Georgia ) Con Klaus Kinski (Dracula), Isabelle Adjani (Lucy Harker), Bruno Ganz (Jonathan Harker), Roland Topor (Renfield, il capo di Harker), Walter Ladengast (van Helsing), Jacques Dufilho (il capitano della nave) Martje Grohmann (Mina) Clemens Scheitz (impiegato comunale) e altri. Durata originale 107 minuti

La “veduta di Delft” è uno dei dipinti che hanno creato il mito di Jan Vermeer (1632-1675). A Delft, in Olanda, Vermeer viveva; di lui si sa poco, ma più che altro perchè c’è poco da dire sulla sua vita, molto tranquilla. Di Vermeer è anche il dettaglio di una strada di Delft, altrettanto famoso.
Vermeer è un maestro delle luci, ma non sta a me fare queste considerazioni, vista la quantità di libri e di riflessioni che i suoi dipinti hanno ispirato. E’ certo che visto un quadro di Vermeer, o una sua riproduzione, poi diventa difficile dimenticarsi di lui e della sua luce.
Bisogna dire qualcosa anche sui colori: come capita sempre con i dipinti, su internet ho trovato fotografie diversissime fra loro. Per sapere com’è la “Veduta di Delft” così come l’ha voluta Vermeer bisognerà proprio andarla a trovare di persona.
Alla “veduta di Delft” Marcel Proust dedica delle pagine famose. Gabriella Alù nel suo sito dedicato a Marcel Proust ( www.marcelproust.it ) le riassume così: « Quando Proust si trova davanti la veduta di Delft di Vermeer al Mauritshuis all'Aja, lo considera "il più bel quadro del mondo". Nella Recherche, Vermeer è il pittore preferito di Swann, che su di lui vuole scrivere un saggio, e lo scrittore Bergotte muore davanti al quadro perchè, se pur molto malato, non sa rinunciare a recarsi al museo per vedere un piccolo particolare (“una piccola ala di muro gialla”) di cui un critico ha parlato e da lui mai notato fino ad allora.»

A Delft è stato girato il “Nosferatu” di Werner Herzog (1978), con Klaus Kinski, Bruno Ganz, Isabelle Adjani. Delft si vede soprattutto all’inizio, lungo i canali: da qui parte Bruno Ganz, a cavallo, salutando la moglie e la famiglia. Come ben sappiamo, si sta recando in Transilvania.
A Delft il film tornerà più avanti, per la scena della peste; in questo caso le immagini riguarderanno soprattutto la piazza centrale della città olandese, della quale si intravedono i campanili.

Dire “Nosferatu” significa parlare di vampiri. Il film di Herzog è la riduzione cinematografica del “Dracula” di Bram Stoker; il conte vampiro è interpretato da Klaus Kinski, Bruno Ganz è invece l’agente immobiliare che va a proporgli un contratto, e Isabelle Adjani è sua moglie, che attirerà l’attenzione del vampiro inducendolo a lasciare il castello dove viveva recluso. Per chi non ama i film di vampiri, e non guarderà mai “Nosferatu”, propongo queste immagini molto belle che sarebbe un peccato perdere.

La nave che si intravvede sulla destra è quella che porta il vampiro a Delft; con lui arriveranno orde di topi, e la peste sconvolgerà la quiete cittadina. Ma per adesso possiamo goderci quest’inquadratura, veramente notevole.
Werner Herzog ha sempre avuto un’attenzione particolare alla scelta dei luoghi in cui girare i suoi film. Forse oggi non sarebbe possibile trovare città rimaste così intatte, quasi come se fossero rimaste a duecento anni fa; negli anni ’70 invece era ancora possibile, e i film di Herzog (soprattutto “Nosferatu”, “L’enigma di Kaspar Hauser” e “Woyzeck”) ne sono la testimonianza.
E infine un’immagine odierna di Delft, presa da internet. La curiosità a questo punto è quasi un obbligo. Direi che tutto sommato ci può stare, peccato soprattutto per quel cartello in basso che è davvero brutto da vedere. Ma, visto quello che abbiamo combinato noi con i nostri panorami più belli (da Napoli alla Liguria ad Agrigento), direi che è meglio sorvolare e togliersi il cappello davanti agli olandesi di Delft.

venerdì 26 febbraio 2010

La musica in "Nosferatu"

Nosferatu, Phantom der Nacht (1979) Scritto e diretto da Werner Herzog. Tratto dal film omonimo di F.W. Murnau (1922) e dal romanzo “Dracula” di Bram Stoker (1897). Fotografia: Jörg Schmidt-Reitwein. Scenografie e arredi di Henning von Gierke e Ulrich Bergfelder . Costumi di Gisela Storch. Trucco per Klaus Kinski: Reiko Kruk. Effetti speciali: Cornelius Siegel. Musica: Florian Fricke (Popol Vuh), Richard Wagner, Charles Gounod, Vocal Ensemble Godela (Georgia ). Interpreti: Klaus Kinski (Dracula), Isabelle Adjani (Lucy Harker), Bruno Ganz (Jonathan Harker), Roland Topor (Renfield, il capo di Harker), Walter Ladengast (van Helsing), Jacques Dufilho (il capitano della nave) Martje Grohmann (Mina) Clemens Scheitz (impiegato comunale) e altri. Durata originale 107 minuti

E’ davvero fuori dal comune, e denota grande finezza interpretativa, l’uso che Werner Herzog fa della musica di Richard Wagner, in “Nosferatu”. Si tratta dell’inizio di “Das Rheingold” (L’Oro del Reno, 1854, primo capitolo della “Tetralogia” che comprende altre tre opere: La Walkiria, Sigfrido, Il Crepuscolo degli Dei); è un’opera molto complessa, che non sto qui a riassumere per questioni di spazio: basti sapere che in Wagner questa musica rappresenta il caos iniziale, o il nulla; poi una fitta nebbia o caligine, che pian piano si dissolve; alla fine del brano, appare la Luce che illumina la natura incontaminata, sulle acque del Reno.
Herzog presenta questa musica, che è un lungo accordo iniziale dapprima indistinto, poi in lieve e continuo crescendo, quando Harker (Bruno Ganz) arriva al castello del vampiro: al crepuscolo, ormai nel buio. E il culmine del lentissimo crescendo orchestrale arriva quando Harker viene raggiunto dalla carrozza che lo porterà dentro al castello buio. Si tratta quindi di un Wagner usato “a rovescio”: non la luce che nasce dalle tenebre, ma il suo opposto. Usata in questo modo la musica di Wagner porta dunque le tenebre, e non la luce.
Non cambia invece quel che segue: l’apparizione di un personaggio che porta il male nel mondo. In Wagner è Alberich, che ruberà l’Oro del Reno maledicendo l’amore e rinunziandovi per sempre; in Herzog è il vampiro.
La maggior parte della musica di questo film è stata però composta dai Popol Vuh, un gruppo tedesco famoso negli anni 70 e guidato da Florian Fricke, abituale collaboratore di Herzog nei suoi film. E’ musica molto bella, molto piacevole, basata su accordi semplici, che al suo apparire fece un certo scalpore perché era stata collocata nei negozi di musica nell’ambito del rock e del pop: come si capisce subito, si tratta di tutt’altra cosa. Il nome del gruppo, “Popol Vuh”, non ha nulla a che vedere con la parola “popolo”: è in lingua maya, ed è il titolo di uno dei pochi libri che ci rimangono di quella civiltà (“il libro delle foglie scritte” traduce la Garzantina). Dato che Fricke collaborava con Herzog già al tempo di “Aguirre furore di Dio”, nei primi anni ’70, è facile immaginare un’amicizia di lunga data e molti interessi in comune.
Nella scena in cui Isabelle Adjani cammina per la città assediata dalla peste, ascoltiamo il Vocal Ensemble Godela, che proviene dalla repubblica caucasica della Georgia (a quel tempo era parte dell’Unione Sovietica). Nel film, in questo momento, vediamo scene di danza, ma la musica che si ascolta è priva di ritmo: il contrasto che ne nasce è di grande effetto drammatico. Herzog racconta che durante le riprese la musica era quella di una piccola orchestra, che suonava effettivamente ritmi di danza, valzer e polke e mazurche; i musicisti che la eseguono si vedono bene durante tutta la sequenza.
E’ una scena quanto mai spettrale: nella città è arrivata la peste, i morti non si contano più, e come nei tempi andati c’è chi si dà alla pazza gioia mangiando e bevendo, in attesa che arrivi la fine. Dalla sequenza filmata è stato tolto il sonoro originale, sostituito da una polifonia vocale che ricorda molto quella della chiesa bizantina e ortodossa. L’effetto raggiunto è da brividi, e rende meglio di quanto si possa immaginare ciò che è narrato nel romanzo.
La cavalcata finale di Harker (Bruno Ganz) è modulata sul Sanctus di Gounod, tratto dalla “Messa solenne per Santa Cecilia”. Il Sanctus è una parte della Messa latina, nella liturgia cattolica; nel corso dei secoli, molti compositori importanti (quasi tutti) hanno messo in musica questo testo, non solo per motivi religiosi ma anche e soprattutto per la sua drammaticità. Il Sanctus si ascolta non solo nelle Messe normali, ma anche nei due Requiem più famosi, quelli di Mozart e di Verdi; l’elenco completo sarebbe lungo.
Il testo completo del Sanctus è questo: « Sanctus, sanctus, sanctus, Dominus Deus Sabaoth. Pleni sunt coeli et terra gloria tua. Hosanna in excelsis. Benedictus qui venit in nomine Domini.» (Santo, santo, santo, è il Signore Dio degli Eserciti. Pieni sono i cieli e la terra della tua gloria; osanna nell’alto dei cieli. Benedetto chi viene nel nome del Signore.)
Charles Gounod (1818-1893, francese) è famoso per il suo “Faust”, ma anche per il “Roméo et Juliette” e molta altra musica. Penso che Herzog abbia scelto il “Sanctus” di Gounod per la sua bellezza, ma anche perché dà davvero l’idea di qualcosa che si allontana; ma non mi sento di escludere altre ragioni. Per quanto mi riguarda, trovo questa musica magnifica; ma da allora, da quando ho visto il finale del Nosferatu di Herzog, non riesco ad ascoltare il “Sanctus” di Gounod senza che mi venga un brivido su per la schiena.

giovedì 25 febbraio 2010

Nosferatu di Herzog

Nosferatu, Phantom der Nacht (1979) Scritto e diretto da Werner Herzog. Tratto dal film omonimo di F.W. Murnau (1922) e dal romanzo “Dracula” di Bram Stoker (1897). Fotografia: Jorg Schmidt-Reitwein. Scenografie e arredi di Henning von Gierke e Ulrich Bergfelder. Costumi di Gisela Storch. Trucco per Klaus Kinski: Reiko Kruk. Effetti speciali: Cornelius Siegel. Musica: Florian Fricke (Popol Vuh), Richard Wagner, Charles Gounod, Vocal Ensemble Godela (Georgia ) . Interpreti: Klaus Kinski (Dracula), Isabelle Adjani (Lucy Harker), Bruno Ganz (Jonathan Harker), Roland Topor (Renfield, il capo di Harker), Walter Ladengast (van Helsing), Jacques Dufilho (il capitano della nave) Martje Grohmann (Mina) Clemens Scheitz (impiegato comunale) e altri. Durata originale 107 minuti

Quando uscì questo film, in anni ormai lontani, a molti fece storcere il naso l’estrema somiglianza (dichiarata fin dall’inizio) con l’omonimo film di F.W. Murnau del 1921, capolavoro del cinema muto e dell’espressionismo tedesco. Ci si chiese che senso avesse un’operazione del genere, ed in effetti era una domanda più che legittima. Il “Nosferatu” di Herzog sembrava un’operazione fine a se stessa, di maniera; oggi si direbbe “roba da intellettuali” (oggi, cioè quando usare l’intelletto in vece di altre parti del corpo è diventato un insulto). Ma il manierismo, ammesso e non concesso che il “Nosferatu” di Herzog faccia parte del genere, non è necessariamente una cosa negativa. Il manierismo, come insegnano i critici più attenti, non è affatto sinonimo di mancanza di idee: è anche e soprattutto un fermarsi a riflettere: su se stessi e su quello che è successo nel passato. “Manieristi”, in passato, furono definiti pittori grandissimi, come il Pontormo.
Manierista, in senso alto, può dunque definirsi anche questo film di Herzog: se nel 1979 questo omaggio a Murnau poteva lasciare perplessi, oggi solo il Signore sa quanto avremmo bisogno di fermarci, e di riflettere, prima di costruire qualcosa o di spendere soldi in opere inutili.
“Nosferatu” di Herzog non è soltanto un film su Dracula e sui vampiri, è un capolavoro di stile e di recitazione, altissimo artigianato. Chiunque si occupi di cinema, davanti a un film come questo, dovrebbe osservare attentamente e prendere nota di ogni inquadratura e di ogni fotogramma: lo studio della luce, gli arredi, i costumi, gli attori, la musica, sono una grandissima lezione di cinema.
Herzog è soprattutto, prima di ogni altra cosa, un documentarista. La seconda parte della sua carriera parla chiaro; i film “normali” sono calati drasticamente di numero, Herzog negli anni recenti ha fatto quasi solo documentari. Non credo che si tratti di un calo d’ispirazione, quanto piuttosto del fatto che avere avuto un grande documentarista come Herzog a girare film a soggetto sia stata una fortuna che capita raramente, e che va vista come una vera benedizione per il cinema e per noi spettatori.
Nosferatu di Herzog è uno spettacolo come capita poche volte di vedere. Ogni singola inquadratura meriterebbe un saggio, per la cura e per la perfezione dell’insieme. La ricostruzione storica è perfetta fin nei minimi particolari, e forse oggi non sarebbe più possibile girare degli esterni così simili a quelli di duecento anni fa, ma allora si poteva fare e la ricerca dei luoghi effettuata da Herzog è, come sempre, stupefacente e minuziosa. Bruno Ganz è vestito come Goethe a Weimar; ma non è questo che conta, conta il fatto che gli abiti sembrano davvero suoi, come se li avesse portati in ogni giorno della sua vita. Anche Isabelle Adjani, dal volto bianchissimo, è elegantissima, e in alcune scene il suo vestito assomiglia ad una corazza, quasi Giovanna d’Arco.
C’è una grande bellezza formale, e sono innumerevoli le citazioni dalla grande pittura e delle stampe d’epoca. C’è molto Füssli, naturalmente, come nel finale con la morte del vampiro abbracciato alla donna che ha ucciso; ed è magistrale il dettaglio del vaso di fiori, a sinistra, in quella scena. Ma è impressionante per bellezza anche la “natura morta” sul tavolo del banchetto che il vampiro prepara per Ganz nel castello.
Ci sono Bosch e Bruegel per la peste nella città (quando i superstiti banchettano in attesa della morte, al centro della piazza). E c’è l’ovale perfetto del volto della Adjani, citazione di secoli di grandi ritratti nella pittura, così come gli interni. Spettacolare ed emozionante, nella scena finale tra il vampiro e Lucy, l’irruzione della luce del sole (con tonalità rosse all’inizio) dopo l’amplesso.
Le scene del vampiro sono assolutamente identiche a quelle del film di Murnau. Sembra quasi che Herzog abbia voluto applicare al film le sue doti di documentarista, girando un film da dentro il film di Murnau. Ma Herzog fa anche un’operazione da regista di teatro: nessuno avrebbe da ridire su una ripresa dell’Amleto fedele al testo Shakespeare, ed è la stessa operazione che Herzog fa con Murnau. Al contrario di molti (troppi) registi di teatro che si spacciano per originali, Herzog è fedelissimo all’originale: sia a Murnau che al romanzo di Bram Stoker.
Anche il trucco di Kinski è identico a quello del vampiro di Murnau, dai denti “da vipera”, cioè da rettile ( e non i canini dei lupi, come nei consueti vampiri del cinema) fino nei più piccoli particolari. L’unica differenza con Max Schreck (il Dracula di Murnau), mi sento di dirlo con sincerità, è che Kinski fa più paura da biondo coi capelli lunghi, cioè nel suo aspetto normale; ma questo è dovuto alla recitazione, il vampiro di Kinski è un essere umano con le sue emozioni e le sue paure, non un insetto, mantide o locusta, intento solo alla sua sopravvivenza.
Ci sono molti momenti che tendono al comico, ed è un’altra delle caratteristiche che rendono questo film davvero curioso, e che lo apparentano un po’ a Kafka (un maestro del comico e del grottesco in molte sue pagine, per chi non se lo ricorda). Il “Nosferatu” di Herzog contiene già in sè la propria caricatura: quando Ganz arriva al castello, Dracula gli offre un sontuoso banchetto; verso la fine l’ospite si ferisce a un dito col coltello, e Kinski si offre di medicarlo succhiando la ferita, “un vecchio rimedio dei tempi andati”. Il giorno dopo, Kinski vede in un cammeo il ritratto della moglie di Ganz, e ne loda il magnifico collo; e quando la nave arriva in città, è Dracula stesso a sfacchinare scaricandosi tutte le casse da morto ad una ad una, rischiando di beccarsi un colpo passando vicino ad un Crocifisso. Ed è decisamente comica la nonchalance finale di Harker quando chiede alla domestica di spazzare via le briciole che lo tengono prigioniero, così come tutta la scena dell’arresto mancato di Van Helsing pochi istanti prima.
Resta da dire degli interpreti: Kinski è perfetto, molto credibile e misurato; ma lo supera Bruno Ganz con un’enorme prova di bravura (basti osservare il suo sguardo nel finale, quando esce dal cerchio che lo costringe prigioniero). C’è una meravigliosa (e pallidissima) Isabelle Adjani, e molti degli attori che hanno accompagnato il regista nei suoi primi film, come Walter Ladengast (van Helsing), e il piccolo e anziano Clemens Scheitz, qui in una breve apparizione nel finale, ma protagonista in “Stroszek” e in “Kaspar Hauser”. In più c’è Roland Topor, il grande disegnatore polacco, che interpreta il capo di Harker, quello che lo manda da Dracula; il suo personaggio (poche sequenze ma ben recitate) fa parte del registro grottesco del film. Nel ruolo del capitano della nave vediamo Jacques Dufilho, attore icona del cinema brillante francese di quegli anni, qui in un ruolo tragico.
Le scenografie e gli arredi che si vedono nel film, davvero impressionanti, non sono oggetti da trovarobato: come spiega bene Werner Herzog nel commento al film disponibile sul dvd, sono opera dei suoi collaboratori, costruiti appositamente: orologi compresi. Su questo aspetto del film conto di tornare quanto prima, perché c’è molto da dire in proposito.
E con questa nota chiudo il mio post sul Nosferatu di Herzog – anche perché, credetemi, c’è molto lavoro ancora da fare, e devo affrettarmi.

Nosferatu (F.W. Murnau)

Nosferatu, eine Symphonie des Grauens (1922) Regia di Friedrich Wilhelm Murnau Tratto dal romanzo „Dracula“ di Bram Stoker. Sceneggiatura di Henrik Galeen Fotografia: Fritz Arno Wagner, Gunther Krampf Con Max Schreck, Gustav von Wangenheim, Greta Schroder, Alexander Granach, Georg H. Schnell, Ruth Landshoff, John Gottowt (94 minuti)
Un film girato da uno dei maestri dell’espressionismo tedesco, uno dei titoli memorabili sulla leggenda di Dracula insieme a “Wampyr” di Dreyer. Il film di Murnau segue fedelmente il romanzo di Bram Stoker (Nosferatu è il termine romeno con il quale vengono indicati i vampiri: se non ricordo male, significa “non morto”), ed è stato rifatto, con mezzi moderni ma in modo molto fedele e altrettanto spettacolare, da Werner Herzog nel 1978.
All’inizio c’è un po’ di sconcerto, per lo spettatore di oggi: non siamo più ai tempi del muto, la recitazione è cambiata, abbiamo stilemi e modi di comunicazione diversissimi. Hutter, cioè l’impiegato dell’immobiliare che va da Dracula per proporre l’acquisto della casa, e così facendo lo porta nel mezzo della nostra civiltà, è interpretato da un attore che ride sempre e a noi sembra ubriaco: si vuol solo sottolineare la sua felicità e il suo ottimismo, secondo uno stilema che oggi risulta ridicolo ma che all’epoca funzionava ancora. Per contrasto, quando si accorgerà che le superstizioni di cui rideva sono vere, e che le cose vanno molto male, risulterà più profonda la trasformazione; ed è un bell’effetto, e una bella prova d’attore, ma per noi posteri la prima parte del film è quasi inguardabile, quanto a recitazione. Ma basta avere un po’ di pazienza, e il film prende quota.
Il vampiro di Murnau non è l’elegante signore all’antica che siamo abituati a vedere, ma un autentico e impressionante “morto vivente”, spettrale e pallidissimo, dalla pelle di mummia e dall’aspetto veramente cadaverico. E’ interpretato da Max Schreck, che sarà l’esatto modello del “Nosferatu” di Werner Herzog, interpretato nel 1978 da Klaus Kinski in uno dei migliori remake della storia del cinema.
E’ interessante vedere i due film, quello di Murnau e quello di Herzog, uno di seguito all’altro: Herzog ha avuto una cura veramente unica nel rifare le scene principali, quasi tutte quelle dove appare il vampiro, e in altre scene ben scelte. Per esempio, è assolutamente identica la scena in cui il barcaiolo trasporta la bara giù per il fiume, verso il porto sul Mar Nero: tendo a credere che Herzog sia andato a cercarsi la location esatta, per rifare quei pochi secondi in maniera perfetta. Ma è curioso notare come Herzog abbia fatto ripetere con precisione a Bruno Ganz anche la scena in cui il povero Hutter fugge dalla finestra del castello annodando le lenzuola.
La parte del film di Murnau ancora oggi spettacolare ed emozionante, un autentico capolavoro, è il viaggio spettrale ma anche molto realistico della goletta Empusa, che invece Herzog sacrifica un po’ pur rifacendolo quasi uguale, girando negli stessi luoghi di Murnau. E’ qui che il vampiro si manifesta in tutta la sua potenza per la prima volta, ed è una sequenza da non perdere. Murnau ha delle invenzioni molto particolari, stranianti: come quando si parla del lupo mannaro e sullo schermo appare una iena; difficile che si sia sbagliato, la iena è nota come magiatrice di cadaveri. Ed è importante sottolineare che Murnau mette nel film dei veri documentari scientifici, notevoli per l’epoca, forse i primissimi girati per scopi professionali: una pianta carnivora che mangia una mosca, un ragno che tesse la tela, protozoi e amebe, organismi unicellulari al microscopio. Riprese rare da vedere, che hanno un interesse storico tutt'altro che secondario.
La storia che si racconta nel film è notissima, ha avuto infinite versioni al cinema e in tv (è molto fedele al racconto di Stoker, sia pure alla sua maniera, anche quella realizzata da Paolo Villaggio in “Fracchia contro Dracula”) e in ogni caso se qualcuno non la conoscesse ancora sarebbe un dispetto raccontarla. Devo però dire che nel finale del 1978, Herzog ci risparmia la consueta morte per polverizzazione del vampiro: la scena avviene al piano di sopra, noi vediamo solo Van Helsing che scende le scale col paletto insanguinato in mano; ma, dopo, il finale del film di Herzog è uno dei più inquietanti di tutta la storia del cinema. Murnau invece ci mostra l’agonia di Dracula in primo piano, e poi lo vediamo svanire al primo raggio di sole, con un bel trucco tra i più classici del cinema, un effetto speciale degno del gran mago Méliès.

mercoledì 24 febbraio 2010

Il gabinetto del dottor Caligari

IL GABINETTO DEL DOTTOR CALIGARI “Das Kabinett des Doktor Caligari”, regia di Robert Wiene (1920) Scritto da Hans Janowitz e Carl Mayer . Fotografia: Willi Hameister. Scenografie di Walter Röhrig, Walter Reimann, Hermann Warm. Costumi: Walter Reimann. Con Werner Krauss, Lil Dagover, Conrad Veidt, Friedrich Feher, Hans H. von Twardowski, Rudolf Lettinger, Rudolf Klein-Rogge Produzione: Erich Pommer per Decla Bioscop-Ufa Durata: 78 minuti

Quando Stanley Kubrick, e con lui molti altri registi importanti, dice che nel passaggio dal cinema muto al sonoro si è perso molto, probabilmente si riferiva non solo ad Eisenstein ma anche al “Caligari”, e sicuramente anche al venerabile (e sempre grandissimo) Georges Méliès, classe 1895 (i film, non Méliès).
La fantasia visiva, unita ad una grande capacità tecnica e di invenzione, era la parte essenziale di questi film. Era come se fosse in atto una gara, una sfida a chi inventava sempre più cose nuove e stupefacenti da far vedere: c’è anche da dire che il cinema del muto era un’arte nuova, nuovissima, e che questa voglia di stupire, di fare e inventare cose nuove, è tipica della giovinezza. Il che non significa che oggi il mondo del cinema e della tv sia vecchio, ma è certo che molte immagini sono state viste così tante volte da sembrare vuote, usurate. E non è certo il caso del Caligari, o di Metropolis di Fritz Lang, che sono film ancora oggi capaci di sbalordire e di incantare; mentre La corazzata Potëmkin (nel suo insieme, al di là della potenza e della grande bellezza delle scene giustamente famose) ha perso molto dell’incanto originale, forse perché in Eisenstein dietro l’innovazione tecnica (copiatissima e ancora oggi alla base di tutta la fiction, tv e videogiochi compresi) non c’era un’invenzione poetica altrettanto grande.
Il “Caligari”, di per sè, non è un film complicato: i film dell’orrore non sono mai complicati. Il soggetto è questo: in un baraccone da fiera, un incantatore mostra i prodigi di un sonnambulo capace di predire il futuro. Nel contempo, in città vengono compiuti efferati omicidi, sempre con la stessa modalità, uno dei quali è stato profetizzato dal sonnambulo. La polizia indaga, e alla fine scoprirà che il colpevole è proprio l’incantatore. Per i suoi colpi, si è ispirato a un antico libro dove è descritta la storia di un suo predecessore italiano, il settecentesco Dottor Caligari; e ha usato il povero sonnambulo come sua arma inconsapevole, nascondendone le assenze tramite un manichino. Ma, forse, non è così: con un altro espediente tipico del genere, nel finale ritroviamo tutti i protagonisti dentro il cortile di un manicomio. Uno dei pazzi è convinto che il direttore del manicomio sia il Dottor Caligari; o forse è tutto vero? Come nelle migliori tradizioni, c’è un capovolgimento finale, una spiegazione razionale che dovrebbe tranquillizzarci, e invece... (“Lui mi crede Caligari...Ora so come guarirlo” dice il Dottore guardando verso di noi, nell’inquietante primissimo piano che precede la parola “fine”).
Devo la visione di questo film ad una ormai antica trasmissione della TSI, la televisione della Svizzera Italiana (www.rtsi.ch); ho avuto l’accortezza di registrare il film a suo tempo (quasi vent’anni fa), e adesso posso raccontarvelo come si deve. Il film è presentato in una versione molto simile a quella originale, che non è in bianco e nero ma nei tipici colori del “viraggio” fotografico. Ad ogni sequenza, ad ogni stato d’animo, corrisponde un colore diverso: rosso, verde, azzurrino...
Il “Caligari” è famosissimo anche per motivi extra cinematografici, e cioè per le sue scenografie molto caratteristiche, sghembe, oniriche, irrazionali, che lo collocano fra i punti fermi dell’Espressionismo. Ed è questo il suo punto di forza, ancora oggi, perché scenografie come quelle del Caligari fanno ancora colpo e sono ancora imitatissime, come quelle di “Metropolis” di Fritz Lang (che però è un film più visionario e più politico, mentre il “Caligari” è puro intrattenimento). A questo punto sarebbe quindi obbligatorio parlare dell’Espressionismo, ma qui davvero il discorso si fa complicato – soprattutto per me, che ne so appena qualche cosa. Sull’espressionismo preferisco fermarmi qui e consigliare di cercare libri e articoli sull’argomento, a partire dal classico “L’espressionismo e il film” scritto da Rudolf Kurtz (1884-1960), che fu testimone diretto di quegli anni: io ne ho una vecchia copia edita da Longanesi, ma non saprei dire se è ancora in catalogo.
Purtroppo, anche la TSI ha smesso da tempo di programmare questi film in tv. E’ un peccato, perché del progetto (un vero e proprio ciclo, molto impegnativo) faceva parte la ricostruzione delle musiche originali. Molti non lo sanno, ma i film muti erano sempre accompagnati dalla musica: di solito un pianoforte, ma spesso più esecutori, con strumenti variabili a seconda dei musicisti disponibili, e addirittura grandi orchestre là dove era possibile, cioè alle prime e nei grandi teatri delle grandi città. Nella mia obsoleta cassetta (non è vero che le VHS invecchiano, la mia registrazione casalinga è ancora in ottimo stato), dopo il film, dialogano Hans Jörg Pauli e Carlo Piccardi della TSI: l’argomento è Giuseppe Becce, musicista veneto attivo in Germania, autore di un’ampia e saccheggiatissima raccolta di musiche “a tema” per il cinema (composizioni musicali divise per argomenti: fughe, inseguimenti, tensione, amore, dolore, rabbia, eccetera). Becce fu anche attore, e interpretò Wagner in un film del 1913; ma la famiglia Wagner negò l’uso delle musiche e Becce iniziò così a comporne di sue per il cinema. Alla prima del “Dottor Caligari”, nel 1920, fu proposto un mix di musiche di varia origine, da Rossini a canzoni dell’epoca, che al pubblico però non piacque; il produttore si rivolse quindi a Becce per le proiezioni successive. La musica originale di Becce per il Caligari è andata perduta, ci sono però molti brani nella sua raccolta ( “Kinotheque”) che sono facilmente riconducibili al film di Wiene. La musica di Becce, eseguita per l’occasione dall’orchestra della RTSI, è ottima, si ascolta volentieri ed è assolutamente adatta al film e alle sue atmosfere; una vera sorpresa. Ma quella di Becce non è l’unica musica per il Caligari; in esecuzioni del 1920 a New York furono impiegate musiche “moderne” , nuovissime per l’epoca (Prokofiev, il Till Eulenspiegel di R. Strauss, Schoenberg...) che furono definite dalle cronache del tempo “molto adatte per un racconto su dei pazzi”. Nel 1919, aggiunge Pauli, l’espressionismo era un movimento quasi finito; e il film di Wiene non è un esperimento d’avanguardia ma una produzione pensata per il grande pubblico.
Un’altra cosa da sottolineare, oltre alle scenografie, è la bellezza delle didascalie originali, piccoli capolavori di grafica e di lettering, ben diverse da quelle che siamo soliti vedere nei film muti. E, nel finale, il delirio dell’incantatore è accompagnato dalle scritte “Du musst Caligari werden!”, che appaiono in animazione in un prodigio di invenzione e di fantasia che dà ancora oggi molti punti ai grafici e agli inventori di sigle e di video musicali.
Guardando le foto che ritraggono il sonnambulo, è quasi inevitabile pensare a Johnny Depp in “Edward mani di forbice” di Tim Burton, e ai cantanti punk. L’interprete del sonnambulo (che si chiama Cesare: italiano, come Caligari) è Conrad Veidt, un attore che sarebbe diventato molto familiare a Hollywood, e che appare anche in “Casablanca” (è l’ufficiale a fianco del capitano Renault). Veidt è giovanissimo, snello ed elegante, sembra Cary Grant in “Caccia al ladro”; non stupisce che Tim Burton ne abbia tratto un film dove le donne finalmente possono innamorarsi del “mostro”.
Nel film viene anche mostrato con dovizia il librone antico dal quale l’incantatore ha tratto la sua ispirazione; per chi fosse interessato a fare ricerche (chissà, magari esiste davvero) ne riporto i dati: stampato a Uppsala nel 1726, è un volume sul sonnambulismo (ovviamente visto con i metri dell’epoca, ben poco scientifici) dove si narra anche di un Dottor Caligari che nell’Italia settentrionale, nel 1703, girava per le fiere e che fu sospettato di aver usato il suo “sonnambulo” per commettere efferati omicidi a scopo di rapina. Ma la fonte prima dell’ispirazione è da ricercarsi piuttosto nei racconti di E.T.A. Hoffmann, (1776-1822), che dava spesso nomi italiani ai suoi “maghi cattivi”: Hoffmann è un grandissimo scrittore, e il consiglio di andarsi a cercare (o rileggere) i suoi racconti è quasi un obbligo, se vi interessa l’argomento.
PS: per chi volesse divertirsi a cercarli, alcuni dipinti di Dino Buzzati somigliano molto ai bozzetti di Reimann.

martedì 23 febbraio 2010

Il testamento del mostro

Le testament du Docteur Cordelier (Il testamento del mostro, 1959). Regia: Jean Renoir. Tratto da “Dr Jekyll and Mr Hyde” di Robert Louis Stevenson. Sceneggiatura di Jean Renoir. Fotografia: Georges Leclerc. Musica: Joseph Kosma. Interpreti: Jean-Louis Barrault (Cordelier e Opale), Teddy Billis (Joly), Michel Vitold (dottor Séverin), Jean Topart (Désiré, il maggiordomo), Micheline Gary (Marguerite), Jacques Dannoville (commissario Lardout), André Certes (ispettore Salbris), Jean-Pierre Granval (il padrone dell'albergo), Jacqueline Morane (Alberte), Ghislaine Dumont (Suzy), Madelaine Marion (Juliette), Didier d'Yd (Georges), Primerose Perret (Mary), Gaston Modot (Blaise), Raymond Jourdan (l'infermo), Sylvianne Margolle (la bambina), Jaque Catelain (l'ambasciatore). Durata: 95 minuti

“Lo strano caso del dottor Jekyll e di Mr. Hyde” fu pubblicato nel 1886: Siegmund Freud aveva trent’anni, Jung era un bambino di undici anni. Robert Louis Stevenson, inventore di questa storia, ne aveva trentasei: al suo attivo aveva già capolavori come “L’isola del tesoro” (1883), “Il ragazzo rapito”, “Catriona”, “La freccia nera”: tutti scritti nel giro di pochissimo tempo. Coetaneo del “Jekyll” è un altro romanzo magnifico, “Il signore di Ballantrae”, che tocca gli stessi temi ma spostando l’ambientazione in ambito storico e psicologico.
La storia del dottor Jekyll è inquietante perché si svolge in ambito moderno, e verrebbe da dire che si svolge ai nostri giorni, perché appena si inizia a leggere ci si dimentica che sono passati quasi centotrent’anni. Ci sono persone che non sanno ancora quanto sia grande Stevenson, e a loro dedico questo mio inizio: quando mi si dice “quello è un grande scrittore”, la mia pietra di paragone è proprio Stevenson. E il “Jekyll” è scritto in maniera perfetta, come quasi tutto Stevenson: chiarissimo nello stile, inquietante e profondissimo nei contenuti.
Se Jekyll e Hyde nascono nel 1886, il cinema nasce nel 1895: e il romanzo di Stevenson è da subito uno dei preferiti del cinema. Le versioni di questa storia sono innumerevoli, quasi tutte trascurabili anche se piacevoli da vedere; quella di Jean Renoir non è particolarmente riuscita, ma è la versione che più si avvicina allo spirito del romanzo e anche alla sua lettera.
Renoir mantiene quasi intatta la struttura del romanzo di Stevenson, spostando l’azione a Parigi negli anni ’50 e francesizzando i nomi dei protagonisti. Il film di Renoir non si può dire perfettamente riuscito, ed è anche molto invecchiato (si sa che se si vuole fare invecchiare presto un film bisogna legarlo all’attualità); ma è sempre notevolissimo e fonte di meraviglia.
Innanzitutto per la scelta dell’attore protagonista, Jean-Louis Barrault, uno dei mostri sacri del teatro e del cinema francese. Barrault divenne famoso con “Les enfants du Paradis” (1941, regia di Marcel Carné) dove interpretava un mimo, un grande attore del teatro francese dei secoli passati; e qui, più anziano, quel lavoro di studio sui movimenti del corpo, e la padronanza del corpo che una volta era bagaglio indispensabile degli attori, diventa fondamentale.
Ed è difficile, senza aver visto il film, spiegare cosa si prova vedendo Barrault trasformarsi in Opale, cioè nel “mostro” a cui siamo abituati a pensare dopo aver visto infinite volte trasformare la storia di Jekyll in un film dell’orrore. E’ una sensazione sottopelle, di disgusto, che va ben oltre il trucco di scena o l’effetto speciale; e che per uno spettatore di cinema attento riserva più di una sorpresa. Per esempio, guardando Barrault camminare e quasi danzare come Hyde (pardon, “Opale”), mi veniva in mente qualcosa, ma non capivo cosa. Poi il bastone da passeggio mi ha aiutato: Malcolm McDowell in “Arancia Meccanica” di Stanley Kubrick, girato dodici anni dopo. Una volta notata, la somiglianza è impressionante, e conoscendo Kubrick è da escludere che sia casuale.

Il film inizia in uno studio tv, con Renoir stesso che dà inizio alla storia come se fosse un fatto di cronaca da raccontare in diretta: ed è quanto di più simile all’inizio di Stevenson abbia mai visto, pur essendo così diverso da quello che è scritto sulla pagina. Questo film e “Le dejeneur sur l’herbe”suo contemporaneo «sono girati secondo un “metodo televisivo” come lo ha definito l'autore: ogni scena è ripresa da diverse macchine da presa (fino a otto) per consentire la scelta in sede di montaggio dei «piani » più adatti. La principale conseguenza di questa tecnica particolare è stata, secondo Renoir, quella di rompere il rapporto dialettico, la sottomissione dell'attore alla macchina da presa. Il fatto che gli attori non sappiano da quale parte sarà poi “ vista” la loro azione, li obbliga “a dimenticare che c'è una macchina da presa”: “non possono più recitare per la macchina da presa, sono obbligati a recitare per se stessi, o meglio per la situazione della scena”. (...) » (C.F.Venegoni, “Jean Renoir”, ed. Il Castoro Cinema).

In sostanza, se l’attore non recita in funzione della cinepresa è come se si tornasse al teatro; la situazione ideale per Jean Louis Barrault. Anche questa tecnica di ripresa contribuisce a spiazzare lo spettatore, che si trova spesso a disagio: al di là dell’apparente semplicità della messa in scena, “Il testamento del mostro” è davvero qualcosa di fuori dal comune, e questa diversità dalle cose che siamo abituati a vedere non è sempre piacevole ma funziona, perché questa di Jekyll & Hyde non è una storia rassicurante, è anzi la storia ideale per mettere a disagio lo spettatore.
Di solito, al cinema, il disagio verso il personaggio di Hyde viene superato trasformando Hyde in un mostro da cinema horror, una specie di licantropo peloso e scimmiesco – poco umano e quindi distante da noi, molto rassicurante al di là dell’aspetto mostruoso. Sulla pelosità (scimmiesca, o da belva feroce) di Hyde al cinema si potrebbe scrivere un saggio o una tesi di laurea: anche Barrault ne approfitta, ed è un peccato, io avrei preferito che avesse risolto tutto con l’interpretazione, senza trucco; e il grande attore francese era già a buon punto per completare l’opera. Ma per il gusto del tempo (gli anni ’50) forse un Hyde non peloso – non scimmiesco - era impossibile. Riuscirà nell’impresa, qui da noi, l’ottimo Jekyll televisivo di Giorgio Albertazzi, dieci anni dopo.
Sullo scimmiesco in Hyde pesa anche, nel finale in flashback, il rapporto con il sesso visto come cosa indegna, animale, da reprimere; Renoir vi infila anche il disprezzo per le classi inferiori, le battute di Cordelier sugli “amori ancillari”, la segretaria bella e innamorata mandata via perché “indegna” della sua posizione di dottore laureato. Si può però notare che nel finale in flashback Barrault-Cordelier, truccato da giovane con i capelli neri, sembra più vecchio. Questi flashback con Cordelier da giovane, va detto, sono forse la parte del film che più è invecchiata.
Notevolissimo infine il collegamento tra Hyde e Kafka (“La metamorfosi”) nella scena in cui Cordelier si risveglia nel suo letto dopo la prima metamorfosi non controllata. Però Hyde-Opale è cosciente della sua natura alata (come direbbe Nabokov) ed esce effettivamente dalla finestra, saltando con agilità e sottraendo la vista della sua metamorfosi a chi non l’avrebbe mai capita – nel caso, il fedele maggiordomo Desiré.
Opale è anagramma di Paleo, chissà se è questo il significato.
« (...) In Opale si ritrova, in una versione incattivita, lo spirito di Boudu, l'insofferenza anarchica per le convenzioni. Per la prima volta il regista suggerisce che questo personaggio non vive nella realtà sociale ma nella realtà psicologica di ognuno di noi. È vero che Boudu era la proiezione in cui il libraio Lestingois si identificava, ma allora si trattava di una identificazione in un'alternativa esterna. Il lungo itinerario percorso da Renoir in tanti anni e lungo tre continenti lo ha alla fine condotto a scoprire che tali antinomie esistono all'interno di ciascun personaggio.» (C.F.Venegoni, “Jean Renoir”, ed. Il Castoro Cinema).
Venegoni paragona quindi la coppia Opale-Cordelier con quella formata da Boudu e dal libraio Lestingois (“Boudu salvato dalle acque”, regia di Jean Renoir, anno 1932): non ci avevo pensato ed è vero; e l’idea del buon Michel Simon che fa Opale mi apre scenari molto divertenti. Peccato che Simon fosse ormai troppo vecchio per rendere un credibile Mr. Hyde! Però ci ha pensato René Clair, con “La bellezza del diavolo”, a dargli una parte adeguata in questo campo.
Renoir mette molto fumo nello studio dello psichiatra “nemico” di Cordelier, gran fumatore, e forse oggi è un dettaglio che colpisce perché non siamo più abituati a veder fumare nei film, ma vedendo questi grandi sbuffi di fumo, perfino esagerati, penso che anche questo non sia un caso ma un segnale allo spettatore, anche perché oltre alla metafora del fumo che impedisce di vedere c’è una evidente citazione come stile del “Dottor Mabuse” di Lang. Ed al cinema muto, e a Lang in particolare, rimandano molte sequenze e molte inquadrature, arredi, eccetera; penso anche alla bambina all’inizio, e a “M – il mostro di Düsseldorf” sempre di Fritz Lang. Dato che Renoir aveva dimostrato grande padronanza del colore e della tecnica moderna, viene da sorridere: anche questo aspetto va considerato come chiara indicazione stilistica.
Lo stile di Lang, quello del “Mabuse”, comporta anche il fatto di non prendersi troppo sul serio, sia pure parlando di argomenti drammatici; e in questo ambito è importante notare che razza di sagoma sia l’attore Michel Vitold, che interpreta il dottor Severin rivale di Cordelier rendendolo sempre sghignazzante, goliardico, e costantemente avvolto nel fumo dei sigari. Notevole anche il fatto che le mani di Opale-Barrault vadano sempre, decise e prensili, verso il sesso e le natiche delle infermiere e delle assistenti... Vivendo nel fumo, il dottor Severin non riesce a cogliere nemmeno le verità più evidenti e quotidiane: forse è questo il senso delle scene in cui appare questo personaggio, ed il messaggio è rivolto anche a noi non fumatori.
Vi è poi, tipica di Renoir, la simpatia per tutti i personaggi “piccoli” che fa di “Il testamento del mostro” quasi un film corale, dove Barrault, pur grandissimo, non è mai il vero centro della narrazione. Sono personaggi amabili, il che li rende talvolta poco credibili: la dolcezza di Joly, l’amico fraterno di Cordelier, si addice poco ad un notaio ma l’attore che lo impersona (Teddy Billis) è perfetto, sia pure con i suoi cappottoni e la sua antiquata veste da camera: e diventa quindi normale che, avendo a che fare con lui, nel finale, in Opale torni a spuntare Cordelier.
Tra questi piccoli personaggi vediamo molti caratteristi del cinema francese, tra i quali Gaston Modot, il giardiniere: si tratta del caro vecchio Schumacher di “La regola del gioco”, molto invecchiato, che ben si merita molte inquadrature. E c’è ancora un presagio di Jacques Tati, che di certo guardava e prendeva appunti, nelle figurine ben disegnate del taxista, delle segretarie, degli innamorati, eccetera.
La storia del dottor Jekyll, infine, ha dei significati che a molti sfuggono. Una storia inquietante, che spesso si cerca di banalizzare volgendola all’horror o parlando di droghe e di farmaci; ma così non è, Stevenson va sempre a scavare in profondità anche quando non sembra, anche in “L’isola del tesoro”: figuriamoci con una storia come questa. Ne era ben cosciente Jean Renoir, e mostra di averlo capito Venegoni nel suo libro, mettendo in mezzo alla sua recensione di “Dejeuner sur l’herbe” e di “Il testamento del mostro” questo brano dalle memorie di Renoir:
« Il fascismo, come il comunismo, crede al progresso. I loro adepti preconizzano l'avvento di una società basata sulla tecnologia. A Mosca, come a New York, il dio onnipotente è questa tecnologia. Pertanto alla resa dei conti si deve pur prendere posizione. Quanto a me, se fosse assolutamente necessario, messo con le spalle al muro, io sceglierei il comunismo, perché mi sembra che i custodi di questa dottrina abbiano una concezione più dignitosa dell'essere umano. Ma per me, come l'ho già proclamato, lo proclamo e continuerò a proclamarlo, il vero nemico è il progresso, non perché non funziona, ma proprio perché funziona... Il progresso è pericoloso perché si basa su una tecnologia perfetta. È il suo successo che sconvolge le norme della nostra vita e costringe l'uomo a vivere in dimensioni che non sono quelle per le quali è stato creato ». (Jean Renoir, Ma vie et mes films, cit., pag. 112) (citato da C.F.Venegoni, “Jean Renoir”, ed. Il Castoro Cinema).

lunedì 22 febbraio 2010

Chambre 666

Chambre 666 - Intervista sul futuro del cinema (1982) Regia di Wim Wenders. Girato a Cannes nel maggio 1982. Prodotto da Chris Sievernich. Camera di Agnes Godard. Musiche di Jürgen Knieper. Interviste (in ordine di apparizione) a Jean Luc Godard, Paul Morrissey, Mike De Leon, Monte Hellman, Romain Goupil, Susan Seidelman, Noel Simsolo, Rainer W. Fassbinder, Werner Herzog, Robert Kramer, Ana Carolina, Mahroun Bagdadi, Steven Spielberg, Michelangelo Antonioni, Wim Wenders, Yilmaz Güney. Durata: 45 minuti (film reperibile in allegato al dvd di “I fratelli Skladanowski”)

Si tratta di una serie di interviste realizzate in un hotel di Cannes, nel 1982, durante il Festival di quell’anno; l’argomento è il futuro del cinema, preso fra lo strapotere della tv (e quindi della pubblicità) e le nuove tecnologie. Il set è fisso, una stanza d’albergo (la stanza n.666) con poltrona, tavolino, finestra sullo sfondo, e un televisore acceso. Il punto di partenza è questo: “Sembra sempre più che i film siano fatti per la tv, per quanto riguarda illuminazione, inquadrature e montaggi; per gran parte degli spettatori di tutto il mondo l’estetica televisiva ha sostituito quella cinematografica...”
Il primo intervistato è Godard, che imposta un discorso storico e politico, molto chiaro e molto interessante: bisogna capire in quale contesto la tv è stata inventata. La tv nasce agli inizi del sonoro, “in un’epoca in cui il subconscio induceva i governanti a voler dominare l’immensa forza espressa dal cinema muto”. Si è passati dalle immagini grandi che vanno viste da lontano alle immagini piccole che vanno viste da vicino; e l’importanza della pubblicità, in tv, è enorme. Si può anzi dire che la tv nasce per la pubblicità, a differenza del cinema. Parla del rapporto tra film e pubblicità, e del fatto che si facciano sempre più film che parlano di altri film invece di andare a cercare la realtà. Quello di Godard è un intervento molto serio, per niente invecchiato, sul quale si può riflettere ancora oggi; non si può riassumere più di quel tanto a meno di non trascriverlo parola per parola, cosa che mi riprometto di fare.
L’altro intervento importante, verso la fine del film, è quello di Antonioni: che parla delle nuove tecnologie, sulle quali ha molto lavorato. Di Antonioni è stato il primo film per il cinema girato in elettronica, con colori modificati al computer, “Il mistero di Oberwald” del 1981; ma i suoi primi tentativi furono con “Deserto rosso” del 1964 . Si parla del passaggio dalla pellicola al nastro magnetico e al laser (oggi del tutto completato), della possibilità di vedere i film a casa (erano i primissimi anni delle videocassette), e del problema della conservazione dei film, soprattutto per il colore che tende a deteriorarsi con il passare del tempo: un allarme lanciato proprio in quegli anni. Il grande regista ferrarese fa anche una profezia sul futuro che sarà “feroce” e sull’ambiente in cui viviamo, aria e acqua e cibo sempre più contaminati dall’inquinamento.
La tv dietro Antonioni è accesa, ma non trasmette nulla.
La prima immagine del film è però un albero, un altissimo cedro del Libano: è sulla strada che da Parigi porta a Cannes, e Wenders lo sceglie come simbolo, perché ha circa 150 anni e quindi è nato e cresciuto prima del cinema e ne comprende tutta la storia.
Le interviste sono molto invecchiate, come è facile immaginare; ma il breve film ha ugualmente un suo fascino, soprattutto quando ci mostra persone che non ci sono più, come Fassbinder e soprattutto come Michelangelo Antonioni, che qui è in ottima salute fisica, ma sappiamo che gli ultimi anni della sua vita furono funestati da gravi problemi di salute che però non gli impedirono di lavorare. Alcuni sono nomi e volti famosi, di altri si è persa la memoria dopo una stagione di successi, di alcuni non so nulla ma può ben darsi che sia colpa mia. E’ probabile che Wenders abbia fatto dei tagli; gli unici che parlano per dieci minuti (il tempo previsto in origine) sono Godard e Antonioni; e penso che si tratti di un omaggio esplicito ai due maestri.
Scorrendo la lista degli intervistati è facile indovinare quali sono i discorsi che vale la pena riascoltare con cura, ma il film è molto breve e non vale la pena spiegare più di quel tanto; sul tv acceso scorrono immagini ogni volta diverse, dai film di Tarzan ai cartoni animati giapponesi, forse un Mazinga o un Godzilla, dibattiti parlamentari, partite di tennis, concerti, gare di canottaggio; alcuni fumano, alcuni stanno seduti, altri in piedi, ma sempre rigorosamente da soli davanti alla cinepresa.
Il primo intervistato è Jean Luc Godard, mentre sul tv acceso scorrono le immagini di una partita di tennis. Godard legge il foglio con le domande di Wenders e bofonchia un po’ come se parlasse da solo, o come se non ne avesse voglia, ma la sua è l’intervista più interessante.
Segue Paul Morrissey, che faceva parte del giro di Andy Warhol, e che si dilunga senza dir molto d’interessante. Poi Mike De Leon, che è filippino e fa un breve (molto breve, la sua è una delle interviste più corte) accenno alla situazione del cinema nel suo Paese; e anche Monte Hellman (che all’epoca aveva girato dei western crepuscolari piuttosto belli) non si dilunga troppo. Romain Goupil, giovane cineasta francese del quale non so nulla, risponde a una telefonata che non è per lui.
Susan Seidelman, minuta e graziosa, era qui agli inizi; il suo film più famoso, “Cercando Susan disperatamente”, arriverà solo nel 1985; sulla tv accesa dietro di lei c’è il monoscopio. Anche la Seidelman si sbriga in fretta e non dice niente di memorabile, almeno visto dall’oggi. Noel Simsolo, altro nome per me sconosciuto, parla francese ed è il più veloce di tutti. Robert Kramer è uno scrittore e sceneggiatore, regista soprattutto di tv, e sarà presente sia come autore che come attore nel film successivo di Wenders, "Lo stato delle cose". Ana Carolina (Ana Carolina Teixeira Soares ) è una regista brasiliana coetanea di Wenders; parla del cinema d’autore e della sua importanza, è una presenza molto gradevole e dice cose intelligenti e ben dentro la realtà; la tv dietro di lei è spenta. Maroun Bagdadi, franco-libanese, parla del rapporto fra il cinema e la vita privata. Bagdadi ebbe in quegli anni un buon successo sia di critica che di pubblico, stava diventando un nome famoso ma morì molto giovane nel 1993.
Steven Spielberg, reduce dal successo di ET, parla molto a lungo e fa un discorso principalmente economico, sul rapporto fra costi e realizzazione di un film. Da bravo americano, fa anche una lunga metafora sul baseball e il successo.
Werner Herzog è molto disponibile e affronta seriamente il tema, ma inscena alcune piccole gags togliendosi scarpe e calze, e infine mettendo un cuscino sulla cinepresa. Herzog in questo 1982 si dice ottimista, il cinema ha un fascino che la tv non potrà mai avere: è anche l’unico a spegnere la tv prima di cominciare a parlare.
Antonioni comincia a parlare in inglese, ma si ferma subito e dice che preferisce esprimersi in italiano. E’ gentile e molto disponibile, forse è l’unico a prendere sul serio l’invito di Wenders. Si muove molto, cammina, va avanti e indietro per la piccola stanza, guarda fuori dalla finestra, ed è un contrasto notevole con tutti gli altri, quasi sempre fermi e seduti.
Quando arriva il momento di Fassbinder, Wenders fa una dissolvenza sul grande cedro. Fassbinder siede in silenzio, fuma, parla poco. Wenders fa durare più che può questa sequenza, in apparenza insignificante: ma Fassbinder morirà poco dopo queste riprese, il 10 giugno 1982, ed è più che probabile che la notizia sia arrivata a Wenders proprio mentre stava curando il montaggio di “Chambre”.
Per ultimo, Wim Wenders presenta un nastro audio del regista turco Yilmaz Güney, che non può intervenire di persona perché rischia di essere arrestato come dissidente dal suo governo: erano brutti tempi. Dal nastro registrato su un walkman, Güney fa un discorso su cinema e arte, e sul rapporto con le masse. E’ importante restare in contatto con le masse, dice Güney, all’epoca sui 40-50 anni; ed è importante fare del cinema che non sia reazionario, come purtroppo capita alle nuove generazioni che così devono fare se vogliono lavorare. Se si vuole lavorare nel cinema bisogna essere banali: si parla della Turchia di trent’anni fa, sembra l’Italia di oggi.
PS: per la redazione del TG5, che so molto interessata a queste cose di somma importanza, segnalo che sia Steven Spielberg che Werner Herzog portano calzini di color turchese; e che alcuni di questi intellettuali sono vestiti in modo trasandato (le donne senza tacchi a spillo!), fumano, e magari (orrore) si presentano davanti alla cinepresa con la barba lunga, perfino di una settimana.