martedì 2 febbraio 2010

Il fiume ( II )

Il fiume (The river, 1950). Regia: Jean Renoir. Soggetto: dall'omonimo romanzo di Rumer Godden; Sceneggiatura: Rumer Godden e Jean Renoir; Fotografia: Claude Renoir; Scenografia: Eugène Lourié e Bansi Chandra; Musica: musica tradizionale indiana, registrata in India sotto la direzione di M. A. Parata Sarathy; “Invito alla danza” di Carl Maria von Weber. Interpreti: Nora Swimburne (la madre), Esmond Knight (il padre), Arthur Shields (Mr John), Thomas E. Breen (capitano John), Suprova Makerjee (Nan), Patricia Walters (Harriet), Radha (Mélanie), Adrienne Corri (Valérie), Richard Foster (Bogey), Penelope Wilkinson (Elisabeth), Jane Harris (Muffie), Jennifer Harris (Mouse), Cecilia Wood (Victoria), Ram Singh (Sahjn Sing), Nimai Barik (Kanu), Trilak Jetley (Anil); Produzione: Oriental International Film INC con la collaborazione del Theater Guild. Durata: 99 minuti

“Il fiume” è un film dolce e delicato, piacevole e anche divertente, con al suo interno una tragedia terribile. Siamo in India, alla fine degli anni ’40; la Natura è molto presente, e la Natura fa di queste sorprese.
Eppure anche alle tragedie bisogna abituarsi. Accade dentro ad un film che fin lì pareva parlare di tutt’altro, una storia di giovani donne che crescono e vivono i loro tormenti d’amore e di vita, sia pure in un ambiente esotico e lontano: nel 1950 l’India era molto più lontana di adesso.
Fa parte della vita, bisogna farsene una ragione. La vita continua, scorre come il grande fiume – il Gange - che passa vicino alla casa delle protagoniste: è il film che Jean Renoir gira dopo aver abbandonato gli USA e Hollywood, dove ha girato alcuni film fra i suoi migliori, ma che non è proprio il suo posto. Dopo “The river” Renoir tornerà in Europa, a girare “La carrozza d’oro” e altri suoi film molto personali, sempre senza farsi condizionare da chi gli vorrebbe spiegare cosa fare e perché.
Al minuto 15, Harriet invita il capitano John al Diwali, la festa induista delle luci.
voce narrante (sempre Harriet): « Mi pare ancora di vederle, tutte quelle lampade. “Diwali” in indiano significa “ghirlanda di luci”, luci che si accendono in memoria di una grande lotta, l’antica ed eterna guerra fra il bene e il male. Per ogni vita perduta in questa lotta, arde una lampada; nella più oscura notte di ottobre milioni di luci risplendono in tutta l’India.»La sequenza che segue, girata dal vero, è quasi identica a quella della festa pagana nell’Andrej Rubliov di Tarkovskij (1966) : ed è qualcosa che può sorprendere, perché si tratta di due ambiti molto diversi, la Russia del ‘400 e l’India sulle rive del Gange; ma vi è sempre un fiume che vi scorre, e forse la religione – antichissima – è davvero sempre la stessa.
« Per gli indiani, l’universo intero è Dio; e siccome Dio è ovunque è naturale per essi adorare un albero o una pietra o un fiume, poiché ogni cosa denuncia la presenza dell’essere supremo. (...) Gli indiani credono in un solo Dio, ma adorano differenti simboli che essi considerano la personificazione delle virtù e delle qualità dell’essere supremo. E’ per questo che in India le immagini nei templi sono così tante e così diverse. Uno dei simboli più venerati è Kali, la dea della distruzione eterna e dell’eterna creazione: non essendo possibile creare senza distruggere. In quei giorni, molte persone fanno offerte a Kali; dalla distruzione degli elementi del male nasce il bene.»A questo punto, di seguito, Renoir inserisce la sequenza del ballo nella casa delle ragazze: da un grammofono parte la la musica di Carl Maria von Weber (Invito alla danza). Il giovane capitano John viene invitato a ballare dalle ragazze, ma a causa delle ferite di guerra la danza ormai gli è preclusa.

Al minuto 24, si riparte dalla cerimonia indiana, e la voce narrante prosegue: « Il giorno seguente, al calar del sole, i simulacri della dea Kali furono portati al fiume per l’ultimo rito. Impastati con l’argilla e accuratamente modellati e dipinti, i busti della dea non avevano ormai più ragione d’essere. Preghiere, fumi d’incenso e ricche offerte sono ormai alla fine. Sul fiume e sulle sue rive giovani e vecchi, ricchi e poveri, rendono il loro estremo omaggio alla dea. Sorta dal letto del fiume, la dea Kali vi fa ritorno: argilla che torna all’argilla.»

Siamo al minuto 25; da qui parte la sequenza di Melanie, una delle tre ragazze, che decide che vorrà essere d’ora in avanti soltanto indiana, come sua madre. Melanie lascia gli abiti occidentali e veste il sari; sarà corteggiata dal giovane Anil, che ne è innamorato; ma Melanie non sa ancora cosa fare, e sorge anche un problema: essendo figlia di un inglese, la ragazza è fuori dal sistema delle caste. Insomma, non è così facile trovare una propria identità.
Al minuto 30, l’inglese che è il padre di quasi tutte le ragazze (e del bambino) accompagna il suo ospite, il giovane capitano John, e gli mostra la sua attività principale: la produzione e il commercio della iuta. I due discutono dell’utilità della iuta (“ci si fanno corde e stuoini”), una fibra tessile molto usata ma oggi quasi completamente soppiantata dagli equivalenti sintetici, come il nylon; Renoir ci mostra molte sequenze quasi documentarie, riprese dal vero.

Al minuto 32, il giovane John (“capitano John”) percorre le rive del fiume, osserva i sadhu (gli asceti) in meditazione, i bambini che giocano, lo scorrere del fiume. Come viene spiegato nel film, John è un uomo giovane e piacevole, e in guerra si è comportato in maniera eccellente; ma dopo la guerra, “un eroe è solo un uomo senza una gamba”. John maschera bene la sua mutilazione, ed è sempre disposto a sorridere, ma non è facile accettare che questa sia ormai la realtà immutabile.
Poi incontra l’altro John (mister John), suo cugino, un po’ più anziano di lui e padre di Melanie.
- E’ questo il tuo luogo di meditazione?
- Oh, meditare è faticoso. Sono troppo pigro per la vera filosofia, così me ne invento qualcuna di personale.
- (ride) Ad esempio?
- Il digerismo. Ecco uno stupendo albero del pepe: io lo guardo e digerisco le mie idee.
- E... non lavori mai?
- Oh. Una volta lavoravo, ma guadagnavo troppo. E ora sono ricco.
- Molto?
- mmm... (sorride e poi spiega) Per te: (indica la sua mano, con pollice e indice molto vicini). Per me: (allarga le braccia più che può e ride contento). Per arrivarci ho dovuto imparare a sottrarre, più che a sommare.
- Ha tutta l’aria di essere un paradosso.
- I paradossi possono essere veri. Una volta, due uomini erano rimasti sul tetto di una casa che bruciava. Uno si buttò, e con quel volo si salvò; l’altro restò lì e ci rimise la pelle.
- (ride) E cioè, dovrei buttarmi?
- (sorride) Sono tuo cugino, non il tuo maestro.
(Al minuto 41 si ricorda che è sotto l’albero del pepe che meditava il Buddha Gautama.)
Al minuto 47 è citata la dea Sarasvati, subito prima del racconto di Harriet su Krishna e la dea Radha. (l’attrice che interpreta Melanie si chiama proprio Radha). Un racconto molto ingenuo, ma che serve a Renoir per mostrarci miti e danze dell’induismo: va ricordato che siamo nel 1950, di queste cose erano in pochissimi ad occuparsi. Molti spettatori saranno rimasti annoiati o sconcertati davanti a queste sequenze, che sembrano fermare la narrazione; ma in esse sta buona parte del fascino del film, e va ricordato che “Il fiume” non è “Piccole donne”, anche se la storia che vi si racconta è molto simile non è solo la storia in sè ad avere importanze, e se ci si chiede come va a finire e con chi si sposeranno le ragazze si sta sbagliando strada. E’ molto bella la sequenza di musica indiana in concerto, ripresa dal vero, al minuto 54: anche questa una rarità per l’epoca, sarà solo dopo la metà degli anni ‘60, con il sitarista Ravi Shankar, che in Europa e in America si prenderà conoscenza della musica indiana.

A 1h23’, dopo il funerale, c’è il secondo dialogo tra i due John. Il giovane John porge a Mr.John un bicchiere di brandy.
Mr. John: Bevo ai fanciulli. (non beve e posa il bicchiere; poi prosegue come se stesse ragionando fra sè, ma a voce alta). Dovremmo essere lieti che se ne vadano così, da piccoli; che riescano a sfuggirci. Li chiudiamo nelle nostre scuole, li educhiamo ai nostri stupidi tabù. Li buttiamo nelle nostre guerre, ed essi non sanno resistere. Non sanno difendersi, e noi li uccidiamo. Sono innocenti, e noi li massacriamo. E il vero mondo, invece, è quello dei bambini; loro sono i più vicini alla natura. Sono come gli scoiattoli. Sono liberi come gli uccelli, e come gli animali sono senza falsi ritegni. Loro sanno ciò che è importante: una lumaca su un muro, una foglia caduta in uno stagno. Se il mondo fosse fatto solo di bambini...
La sequenza successiva vede Harriet a tavola con i suoi genitori. Harriet ha in mano il flauto del fratellino, non vuol mangiare. Sua madre si fa consegnare il flauto.
Madre: Cosa nascondi? Dammi qui, è inutile conservarlo.
Harriet: E’ orribile e crudele... Patate arrosto e piselli, e intanto Bogey non c’è più! Ma tutto continua come se nulla fosse!
Madre: (affranta) No, non è vero. Continua soltanto.

A 1h33’ Renoir ci mostra i riti della primavera, con il colore rosso che viene sparso ovunque, in segno di festa.
Ma qui conviene fermarsi. “Il fiume” è un film da vedere, meno se ne parla e meglio è; e io ho già parlato fin troppo.

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