domenica 18 luglio 2010

Brazil ( III )

Brazil (1985) Regia di Terry Gilliam Scritto da Terry Gilliam, Tom Stoppard, Charles McKeown. Fotografia di Roger Pratt. Musiche originali di Michael Kamen; “Brazil” di Ary Barroso, eseguita da Geoff & Maria Muldaur. Con Jonathan Pryce (Sam Lowry), Kim Greist (Jill Layton), Robert De Niro (Archibald "Harry" Tuttle) , Ian Holm (il capufficio), Michael Palin (Jack Lint), Katherine Helmond (la madre di Sam), Bob Hoskins (l’idraulico), Ian Richardson (Mr. Warren), Peter Vaughan (Mr. Helpmann), Jim Broadbent (Dr. Jaffe), Charles McKeown (Harry Lime), Barbara Hicks (Mrs. Terrain), Diana Martin (il Telegramma Cantato), e altri. Durata 142’
Nonostante il suo pessimismo di fondo, e l’atmosfera cupa, Brazil è un film divertente e pieno di gags, spesso virato al grottesco; fa pensare ma si passano due ore piacevoli. Il momento più terrificante è nel finale, quando il camion passa su un ponte, e si vede finalmente il paesaggio devastato, accuratamente nascosto alla vista da una serie di enormi pannelli pubblicitari. Così è ridotto il mondo, ma è meglio che non si sappia troppo in giro.

La fonte più che dichiarata è “1984” di George Orwell, ed era l’anno giusto, ma uscì prima un altro film “serio” – e un po’ noioso: “Orwell 1984”, regia di Michael Radford. “Brazil”, il titolo nuovo che fu scelto, è la canzone che accompagna i sogni di Sam Lowry, il protagonista del film: che si vede mentre vola sopra le nuvole come un vero supereroe, sconfiggendo terribili nemici (il più spaventoso, un enorme samurai) e guadagnando l’amore di una bellissima ragazza.
La ragazza la troverà veramente: ha i capelli corti, non come la bionda dei suoi sogni, ma per il resto è identica. Fa la camionista e abita sopra i Buttle: è lì che l’ha conosciuta. All’inzio la ragazza non vuole saperne di lui, poi le cose cambieranno – ma questo è un film che non si può raccontare, va proprio visto.
“Brazil” deve qualcosa a “Blade runner” (1981), sempre per la parte visiva; da Brazil hanno attinto a piene mani, soprattutto per la parte visiva, i fratelli Wachowski con “Matrix” e anche l’ultimo Spielberg (“A.I.”, “Minority report”), i videogames (Supermario, con tutti questi tubi e con Bob Hoskins a fare il Super idraulico; e l’archivio dove lavora Lowry, che sembra una sala da videogiochi), ma anche “Truman show” (1997, regia di Peter Weir).
Sono tutti nomi e titoli che più o meno direttamente rimandano a Philip K. Dick, uno degli scrittori più grandi e visionari degli ultimi cinquant’anni, e che sarebbe un peccato relegare nella fantascienza. E’ soprattutto la mescolanza degli anni ‘30 e ‘40 con i tempi attuali ad essere tipica e caratteristica di Philip K. Dick, soprattutto in un romanzo come “Ubik”; ma va anche detto che Dick è contemporaneo di questo film, e non molto più vecchio di Gilliam e dei suoi collaboratori.
Leggendo “Ubik” ho ritrovato la stessa mescolanza di spinotti telefonici anni ‘40 e computer velocissimi, burocrazia spaventosa e metodi spicci, posta pneumatica, ciclostile macchina per scrivere e computer fusi insieme, cups of tea, manopole in bachelite, cavi e tubi ovunque (come a casa mia, del resto), maschere No e samurai, armature come nel “Lancillotto” di Bresson, e tanto altro ancora.

Ci sono citazioni esplicite divertenti da individuare: la tv che trasmette Casablanca, i fratelli Marx e i vecchi western; molto Orson Welles, nelle soluzioni visive e altrove (il vicino d’ufficio di Sam dopo la promozione si chiama Lime, Harry Lime). Lowry abita nella “Torre Shangri La”, e il suo nome viene da Malcolm Lowry, lo scrittore di “Sotto il vulcano”. Ma c’è anche Kubrick: soprattutto nel finale, “2001” e “Shining”, e ovviamente Metropolis di Fritz Lang, e la scalinata di “La corazzata Potiomkin”, con l’inevitabile carrozzina, sempre nel finale. Ma anche Ingmar Bergman nel 1968, direi “La vergogna”, per quei carri armati misteriosi.
Davanti a questa profusione di fantasia e di stile viene spontaneo un pensiero: che peccato che Gilliam si sia normalizzato, subito dopo “Brazil”... Ha continuato a fare film “strani”, ma stando ben dentro le regole del cinema “normale”; l’unico paragonabile a “Brazil” è “Paura e delirio a Las Vegas”, del 1998, con Johnny Depp: un film che però non è perfettamente riuscito.
Va detto ancora che uno degli autori del film è Tom Stoppard, un nome molto importante del teatro inglese; e che l’impressione di vedere un adattamento del “Castello” di Kafka, con la sua miscela di tragico e ridicolo, è a tratti molto forte.

“Brazil” è un film molto ricco, dove è difficile stare dietro alla quantità di invenzioni e di citazioni; letteralmente, non si sa mai cosa succederà nella scena successiva. Meritano almeno un cenno frasi come “La verità vi rende liberi” (very Orwell!), gags come quella del telegramma cantato (che si chiama Diana Martin: non so niente di lei, qui ha una parte piccolissima ma è favolosa), e storie secondarie come quella sulla chirurgia plastica, alla quale si sottopone la madre di Lowry (una donna molto influente) e le sue amiche, con sequenze grottesche che anticipano molte delle nostra trasmissioni tv di oggi, Lante della Rovere, Ripe di Meana, Mamme Scicolone, nuore del Buce e vedove d'Almirante in quantità industriale.
All’inizio del film Lowry non vuole fare carriera, gli piace stare all’archivio (dipartimento del Ministero dell’Informazione, non un gran posto) dove il suo capo (Ian Holm coi baffetti, una caratterizzazione da grandissimo attore) lo porta in palmo di mano e dove è molto libero; ma la mamma (molto influente) lo spinge e può farlo promuovere anche contro la sua volontà.
- Avrai pure delle ambizioni, dei sogni nascosti.
- No! No, non ho nessun sogno.
Ma noi sappiamo che non è vero. E quando al minuto 40 Lowry va dalla vedova di Buttle (per portarle di persona l’assegno, perché lei non ha il conto corrente) conosce Jill Layton, la ragazza dei suoi sogni, che abita sopra i Buttle. A questo punto, ricorre a tutto pur di avere la promozione che gli consentirà di avere notizie sulla ragazza; veniamo a sapere che il padre di Lowry era molto amico di Helpmann, il viceministro che avevamo visto in tv all’inizio del film, e che da qui in avanti avrà una parte fondamentale nel film.
Il finale è visionario e indimenticabile, con citazioni anche da Capra (la scena di Tuttle che scompare avvolto dai giornali, girata in perfetto stile “It’s a wonderful life” o “John Doe”), echi di Lovecraft (creature striscianti e mostruose), rimorsi per la morte di Buttle, citazioni dal noir anni 40.

Ma a me piace l’idea di chiudere il discorso con quest’immagine ispirata al film di Gilliam, la Electriclerk, che è "una fusione tra un Mac del 1988 con una macchina per scrivere Underwood del 1923” della quale troverete altre notizie sul sito http://blog.makezine.com/ : il suo inventore Andrew Leman dice che funziona benissimo.

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