giovedì 9 settembre 2010

Dove sognano le formiche verdi ( I )

DOVE SOGNANO LE FORMICHE VERDI (Where the Green Ants Dream - Wo die grünen Ameisen träumen, 1984). Regia e sceneggiatura: Werner Herzog. Dialoghi addizionali: Bob Ellis
Fotografia: Jörg Schmidt-Reitwein Scenografia: Ulrich Bergfelder Riprese: sei settimane a Coober Pedy, Melbourne (Australia) Musica: Gabriel Fauré: Requiem; Ernst Bloch: Voice in the Wilderness; Richard Wagner: Wesendonck-Lieder; Klaus-Jochen Wiese: Temporary Galaxies; Wandjuk Marika: Didjeridu Interpreti: Bruce Spence (Lance Hackett), Wandjuk Marika (Miliritbi Riratjingu),Roy Marika (Dayipu), Ray Barrett (Cole), Norman Kaye (Baldwin Ferguson), Colleen Clifford (Miss Strehlow), Ralph Cotterill (Fletcher), Nicolas Lathouris (Arnold), Basil Clarke (Giudice Blackburn), Ray Marshall (Coulthard), Gary Williams (Watson), Dhungala I. Marika (Malila il muto), Tony Llewellyn-Jones (il pastore protestante), Marraru Wunungmurra (Daisy Barunga), Robert Brissenden (Professor Stanner), Bob Ellis (direttore del supermercato), Paul Cox Durata originale: 100'

«Durante la loro storia, i Gaguju non hanno costruito grandi monumenti; hanno però vissuto per oltre quarantamila anni in assoluta armonia con l’ambiente. Non hanno distrutto la Terra e non ne hanno messo in pericolo lo spirito: è questo il loro monumento. Un monumento che in prospettiva futura potrebbe essere il più importante di tutti.»
(da un doc. del National Geographic di Stanley Breeden e Belinda Wright, girato nella riserva Kakadu)
Una cultura che non costruisce niente, che non lascia niente di scritto: la si può definire cultura? Fino a qualche anno fa, nessuno l’avrebbe definita tale: si dà per scontato che una civiltà debba lasciare il segno, costruire monumenti, scolpire nella pietra, erigere grattacieli, celebrare l’Expo e magari approntare un circuito di Formula Uno che ne abbiamo tutti gran bisogno. Oggi, rivedendo questo film di Herzog e (per puro caso) anche questo ormai vecchio documentario sugli aborigeni d’Australia (è degli anni ’80, ma è molto bello e me lo sono tenuto da conto su una videocassetta), mi viene da pensare al vecchio detto di Brecht, “benedetto quel popolo che non ha bisogno di eroi”. Lo aggiornerei così: benedetto quel popolo che non ha bisogno di costruire palazzoni e monumenti, perché sa che la civiltà è un’altra cosa; e benedetto quel popolo che non ha memoria dei suoi leader, perché i leader che si ricordano di più sono quasi sempre dittatori rovinosi, con migliaia di morti (se non milioni) sulla coscienza. Poche le eccezioni a questa regola, per esempio Gandhi: ma pensiamo per un istante alla Svizzera, o alla Svezia, o alla Finlandia: qualcuno si ricorda il nome di un presidente o di un politico svizzero? Qualcuno si ricorda il nome di un premier svedese, a parte Olof Palme? (non a caso: sia Palme che Gandhi furono assassinati...).
Ma questi pensieri, che pure sorgono spontanei, hanno poco a che fare con il film di Werner Herzog: che, reduce dalle epiche fatiche di “Fitzcarraldo”, nel 1984 gira un film che ne è l’esatto opposto, quasi un film intimo ed interiore, se non fosse per il fatto che è girato quasi completamente in esterni.
La storia, la trama, è molto semplice e si segue molto bene vedendo il film; quindi mi limiterò a portare qui alcuni momenti che mi sono segnato durante la visione.
Il film inizia, come capita quasi sempre con Herzog, con una musica molto bella e molto ben scelta, fuori dagli ascolti comuni: si tratta del “Piae Jesu” dalla Messa da Requiem di Gabriel Fauré, che ascoltiamo mentre scorrono le immagini di un tornado (si tratta di riprese in Oklahoma fatte da Jörg Schmidt-Reitwein, direttore della fotografia in “Dove sognano le formiche verdi” e in molti altri film di Herzog ).
La musica è bellissima, e Gabriel Fauré, per chi non lo conoscesse ancora, è stato un musicista molto importante. Oltre ad essere un grandissimo compositore in proprio, fu anche per molti anni insegnante di Conservatorio: a Fauré devono quindi molto quasi tutti i grandi musicisti francesi del Novecento, a partire da Maurice Ravel che fu suo allievo. Fauré visse fra il 1845 e il 1924; per chi volesse approfondire, oltre alla musica da camera (trii, quartetti, quintetti, sonate) vanno ricordati almeno “Masques et bergamasques”, la “Pavane op.50” e il poema sinfonico “Pelleas et Melisande”.
Il film si apre con una storia apparentemente secondaria: la donna anziana che cerca il cagnolino (unica presenza femminile di rilievo) che è senz’altro una proiezione della madre di Herzog appena scomparsa, alla quale è dedicato il film; ed è ancora a lei che è dedicato il brano dal Requiem di Fauré che percorre il film. «Spesso i soggetti dei film al loro inizio sono un po’ come dei cagnolini perduti”, commenta Herzog ... Miss Strehlow ha perso il suo cagnolino, che è entrato nella miniera e non ne è più uscito; e si rivolge al capocantiere e al giovane ingegnere minerario, che la ascoltano con attenzione ma le dicono subito che non possono fare molto, perché la miniera è molto vasta ed è un vero labirinto.
Ancora musica nella scena successiva: è il didjeridoo, strumento tipico degli aborigeni australiani, che si alterna con le ruspe al lavoro nella terra rossa, rossa come su Marte, che è il luogo dell’azione. Vediamo ovunque mucchi di terra proveniente dalla trivellazione, dai saggi effettuati per capire se conviene scavare più in grande; è terra che viene da grandi profondità, ma chiara come sabbia. Il paesaggio è piatto e desolato, ma è anche di quelli che non si dimenticano.
Al minuto 4.30 dall’inizio del film ascoltiamo il suono di un sitar o qualcosa di simile: qui parte l’azione vera e propria. Una ruspa sta muovendo la terra, un piccolo gruppo di aborigeni le si para davanti; l’autista è costretto a fermarsi e va ad informare l’ingegnere.
Con l’autista della ruspa, ottima persona ma un po’ rustico, non c’è dialogo; il giovane ingegnere è più simpatico e riceve una risposta che lo lascia perplesso e curioso: ma perché quegli aborigeni si sono messi davanti alla ruspa? La compagnia mineraria ha tutti i permessi...
- No, non capisco. Ma vorrei tanto capire.
- Sei cristiano?
- Sì, così mi hanno cresciuto.
- Cosa diresti se un bulldozer ti buttasse giù una chiesa?
La risposta è data con calma, senza gridare, quasi sottovoce. L’ingegnere aiuta gli aborigeni a rialzarsi (l’autista della ruspa li aveva coperti di terra, ma loro non si sono mossi), quelli si alzano, scuotono la terra dai pantaloni, e si siedono pochi centimetri più in là. Niente da fare.
L’ingegnere è ormai curioso e va a trovare un uomo che vive con gli aborigeni. Siamo al minuto 24: l’uomo si chiama Arnold, vive in una baracca fatta con le lamiere ondulate, e lo interpreta un attore di origini greche (Nicolas Lathouris) che crea un contrasto molto buffo con Bruce Spence che interpreta l’ingegnere ed è altissimo. Lathouris è piccolino e nervoso, e nel viso somiglia un po’ a Werner Herzog; il suo personaggio, Mr. Arnold, è molto arrabbiato. Non vuole parlare con l’ingegnere e gli sbatte la porta in faccia: rappresenta una civiltà “che sta distruggendo tutto, anche se stessa” e si spiega con la metafora del treno che corre verso la catastrofe, ma nessuno si interessa di quel che succede.
Sempre in cerca d’informazioni, l’ingegnere va da un pastore protestante (l’attore è Tony Llewellyn-Jones: difficile da riconoscere, ma dieci anni prima fu protagonista di Picnic ad Hanging Rock); si accorge che sta con gli aborigeni ma si tratta di un coro cristiano, quindi non è utile per rispondere alle sue domande. Essendo cristiani, questi giovani aborigeni molto probabilmente non sapranno nulla delle antiche religioni locali.
Il giro dell’ingegnere in cerca di informazioni sugli aborigeni finisce in un supermarket, dove un gruppo di aborigeni siede in preghiere davanti ad uno scaffale. «Qui c’era un albero, un luogo sacro “dove si sognavano i figli”» gli spiega un dipendente del supermarket. Ed è un fatto vero: nel suo commento al film, Herzog spiega che questo piccolo fatto è andato proprio così. L’albero abbattuto era sacro per quella tribù, era grazie a quell’albero che potevano nascere i loro figli. Non potendo riavere l’albero, tornano quantomeno sul luogo preciso dov’era; e al supermarket si sono adeguati, in quegli scaffali mettono merce che viene acquistata con meno frequenza, detersivi, piccole cose che i clienti possono prendere senza disturbare gli aborigeni raccolti in preghiera.
- Ormai sono diventati un’attrazione, - spiega il commesso (che è il regista Bob Ellis, coautore dei dialoghi del film ) – c’è gente viene qui apposta per vederli, e a noi ormai conviene che ci siano.

6 commenti:

Marisa ha detto...

Anche se le formiche verdi non esistono perchè Herzog ama mischiare fantasia e realtà, questo è un film da prendere molto sul serio perchè è assolutamente fedele allo "Spirito" degli aborigeni, oltre ad essere un bellissimo film, il che aumenta il valore del messaggio.

Il modo di vivere, nell'assoluto rispetto della natura e di tutte le creature (comprese le formiche) è proprio di quasi tutte le civiltà che noi definiamo primitive, ma che a me verrebbe da dire "primarie", perchè sono ben aderenti alle fondamenta della vita.
Cito per tutte una parte del famoso discorso del Capo Seattle, tenuto nel 1885, alla firma dell'ennesimo trattato con i bianchi (sempre poi disattesi dalle"lingue biforcute"):

"La vostra religione è stata scritta su tavolette di pietra, dal dito di ferro del vostro Dio, per paura che voi poteste dimenticarla.
Gli uomini rossi non potrebbero mai ricordarla o capirla.
La nostra religione deriva dalle tradizioni dei nostri antenati, i sogni dei nostri vecchi, dati loro dal Grande Spirito, e le visioni dei nostri capi pellerossa, ed è scritta nei cuori della nostra gente."

Capito perchè non hanno bisogno di monumenti e libri?

Giuliano ha detto...

E' un film così semplice che può lasciare sconcertati, soprattutto se si pensa al momento in cui uscì, subito dopo Fitzcarraldo: che fu un grande successo, e tutti si aspettavano da Herzog un altro Aguirre, un altro Fitzcarraldo. La storia è davvero molto semplice, sarebbe quasi un film adatto ai bambini se non fosse per la questione religiosa e filosofica.
Mi sembra ottimo il paragone con gli indiani d'America, peccato che nessuno abbia fatto in tempo a girare con loro un film come questo...
Sono tre post in tutto, di cose da dire ce ne sono tante.

Marisa ha detto...

Sì, ma si tratta di quella semplicità abissale a cui la nostra mente complicata e contorta non è più abituata, semplicità che è frutto di una "visione chiara ed oggettiva", cioè non deviata dal nostro tornaconto e dalle nostre giustificazioni.

Come saprai, questo film ha molti debiti di riconoscenza verso il grande Bruce Chatwin, che purtroppo ora sta passando di moda, ma che è stato un sensibilissimo viandante moderno, appassionato e coltissimo.
Il suo bellissimo libro "Le vie dei canti" è tutto un omaggio agli Aborigeni australiani e al loro immaginario.
L'importanza del sogno e del canto nella creazione della realtà è di una profondità sconvolgente e credo che Rilke si sia avvicinato, con il suo Orfeo, a simile visione. Solo i grandi e veri poeti infatti possono essere vicini a quella sfera che per i primitivi e i bambini è ancora accessibile.

Giuliano ha detto...

Herzog ha una capacità di fare film che si è persa, eppure non era l'unico ad averla. Forse è il passaggio dal grande schermo al piccolo (e ormai piccolissimo: tascabile), ma soprattutto il fatto che ormai comanda la pubblicità. Non si torna indietro, tra meno di vent'anni il cinematografo sarà soltanto un ricordo (e forse nemmeno quello).
Però attenta: nel commento sul dvd Herzog spiega che l'incontro con Chatwin avvenne qui, mentre Herzog girava questo film e mentre Chatwin stava cercando materiale per "Le vie dei canti". I due hanno sicuramente avuto fonti in comune, ma per restare al cinema erano già usciti Walkabout di Nicholas Roeg e i film di Peter Weir, L'ultima onda soprattutto.

Marisa ha detto...

Hai ragione, il libro di Chatwin è de 1987 mentre il film di Herzog è del '84.
Ci sono tante di quelle analogie che mi ero confusa. Ma, come dici, il mondo degli aborigeni è quello e ovviamente le fonti sono comuni.
"L'ulima onda" di Weir è un'opera molto pregnante e visionaria ed ha il merito di ricordarci che a un livello più profondo , quello dell'inconcio collettivo di Jung per intenderci, siamo tutti uguali.

Giuliano ha detto...

Beh, anch'io ero convinto del contrario, prima di ascoltare il commento di Herzog...(che dura per tutto il tempo del film, ne ha di cose da dire Herzog!)
Ne approfitto per ringraziare la casa editrice Ripley's Home Video, che ha messo questa possibilità di conoscenza su tutti i film di Herzog e di Wenders, con sottotitoli italiani.
Il timore è che, adesso i dvd non sono più di moda, si perda questa editoria di altissimo livello. ("scarica, scarica"...ma che cosa scarico? non avrei mai comperato un solo dvd se non mi fossi accorto che erano fatti benissimo)