mercoledì 27 ottobre 2010

Il barbaro e la geisha

THE BARBARIAN AND THE GEISHA (IL BARBARO E LA GEISHA, 1958) Regia: John Huston; sceneggiatura: Charles Grayson (dal romanzo di Ellis St. Joseph); fotografia: Charles G. Clarke; scenografia: Lyle R. Wheeler, Jack Martin Smith; arredamento: Walter M. Scott, Don B. Greenwood; musica: Hugo Friedhofer; montaggio: Stuart Gilmore. Interpreti: John Wayne (Townsend Harris), Sam Jaffe (Henry Heusken), Eiko Ando (Okichi), So Yamamura (Tamura), Hiroshi Yamato (Shogun), Morita (primo ministro), Kodaya Ichikawa (Daimyo), Tokujiro Iketaniuchi (Harusha), Fuji Kasai (signore Hotta), Takeshi Kumagai (ciambellano), Norman Thompson (capitano della nave), James Robbins (tenente Fisher). Durata: 105'.
- Sono questi, i protettori della vostra città?
- Sì. Contro gli spiriti del male.
- Beh, speriamo che mi facciano passare!
- Faranno passare il vostro corpo, ma non la vostra anima se è malvagia.
(dialogo tra l’ambasciatore americano e il barone Tamura, alle porte di Edo, dallo Shogun, guardando le statue dei “guardiani della soglia”).
Saltando i cinque minuti iniziali, compresa la fragorosa sigla della XX Century, e cominciando a vedere il film dal momento dell’arrivo del veliero (e di John Wayne) sulle coste del Giappone, l’impressione di rivedere Moby Dick è grande. E’ un’impressione che tornerà anche più avanti, nel corso del film, ma purtroppo “Il barbaro e la geisha” è da considerarsi un film non riuscito, e stavolta non è colpa di John Huston. A fine lavorazione, infatti, il film fu sottratto a Huston e affidato a John Wayne, che ne rigirò alcune scene e che curò il montaggio finale. Huston e Wayne non andavano d’accordo e avevano idee diversissime sul cinema, il che non significa che non avrebbero potuto lavorare insieme; ma i contrasti furono molto forti, e il risultato finale è un pasticcio che non ha mai convinto nessuno.
Huston però era partito con il piede giusto, lo si vede fin dall’inizio e lo si intuisce dalle scene più belle, dove a tratti sembra di vedere un Kurosawa a colori con vent’anni di anticipo, magari “Sogni” più che “Ran” o “Rashomon”, o magari il Bertolucci di “L’ultimo imperatore”.

Il film, almeno fino a che l’ha in mano Huston, non nasconde niente, il colera portato dagli americani, lo schiavismo, gli indiani (“avete anche voi degli arcieri in America?” chiede uno dei nobili giapponesi al console). Tenuto conto che siamo negli anni 50, dopo Pearl Harbor e Hirsohima, quando il pregiudizio verso i giapponesi era ancora molto forte, “Il barbaro e la geisha” è un film tutt’altro che banale, ed è un peccato che Huston non abbia potuto montare il film e curarne la versione finale. Ed è anche un peccato che Huston non sia vissuto fino all’epoca del dvd, forse avrebbe potuto rimontare il film recuperando qualche sequenza tagliata dalla produzione.
Un altro film che bisogna immaginare, dunque: quasi come il Messico di Eisenstein, gli Amberson e il Don Chisciotte di Welles...

Gli attori: John Wayne come al solito legnoso ma a suo modo efficace; ottimo Sam Jaffe, grande caratterista del cinema americano negli anni ’30 e ’40, che ricordo soprattutto in “Orizzonte perduto” di Frank Capra e che sembra davvero un personaggio uscito da qualche stampa ottocentesca. Poco convincente la geisha Eiko Ando, molto rigida e poco affascinante; oltretutto nel film appare alta quasi come John Wayne, che viene definito come “un gigante” e che passa gran parte del film a prendere testate sulle travi del soffitto. Il doppiaggio italiano è ben fatto, ma quello che si intuisce del sonoro originale (in presa diretta) fa immaginare, ancora una volta, un film del tutto diverso. Personalmente, ho trovato un po’ fastidiosa la voce della narratrice, che imita un “parlare con cadenza giapponese”: è un lavoro ben fatto e la doppiatrice è molto brava, ma forse non era il caso di farlo, visto che molti dei notabili giapponesi sono doppiati senza alcun accento. Tutti convincenti gli attori giapponesi, sui quali sarebbe interessante fare un lavoro di ricerca per sapere se qualcuno di loro ha lavorato con i grandi del cinema di Tokyo, con Kurosawa o con magari con Ozu.

Come conclusione, prima di affidarmi a Morandini (come al solito perfetto, gli basta una pagina per dire tutto quello che c’è da dire) metto il pensiero che mi è nato dopo aver rivisto il film: che avrebbe dovuto interpretarlo di persona lui, John Huston, il gigante americano. Huston era un ottimo attore, sarebbe stato perfetto per la parte ed aveva anche “le physique du role”. Venendo ai nostri giorni, per la parte del console americano sarebbe stato meglio ancora Clint Eastwood, ed è davvero un peccato che non lo abbia mai fatto. Un remake di “Il barbaro e la geisha” diretto, riscritto e interpretato da Eastwood, con una brava attrice giapponese di quelle di oggi, non sarebbe stata una cattiva idea. L'argomento è di quelli sempre attuali, e la storia di quel periodo (da noi c'era il Risorgimento, Mazzini e Garibaldi; in USA erano vicini alla guerra di secessione) è da noi poco conosciuta. Trent'anni dopo, uno scrittore americano ne avrebbe raccontato gli sviluppi: David Belasco, che nella "Madame Butterfly", poi messa in musica da Puccini, racconterà l'occupazione americana del Giappone, e con una storia d'amore tra un americano e una giapponese raccontata molto meglio di quella che vediamo qui.
Morando Morandini, dal volume su John Huston del “Castoro Cinema”:
Huston si sposta in Giappone per girare The Barbarian and the Geisha (1958) con cui tocca uno dei punti più bassi della sua carriera. Il "barbaro” del titolo è un personaggio storico, Townsend Harris, che nel 1856 divenne il primo console generale del governo di Washington in Giappone. L'8 luglio 1853 quattro navi della marina da guerra degli Stati Uniti, al comando del commodoro Mathews Calbraith Perry, avevano gettato le ancore al largo di Uraga, prefettura di Kanagawa, all'entrata della baia di Tokyo. Con i cannoni dei suoi velieri alle spalle Perry sbarcò a Uraga e consegnò ai rappresentanti dello shogun un messaggio del Presidente Millard Fillmore che chiedeva l'apertura del paese agli scambi commerciali, concedendo al governo imperiale un anno di tempo per decidere. Tra le ragioni che spingevano Washington a quella prova di forza la principale era la necessità di poter usufruire di scali marittimi sulla rotta tra la California e la Cina, diventata da qualche tempo un mercato assai proficuo.

In carica da pochi mesi lo shogun Togukawa Iesana interpellò i vari daimyo, governatori delle provincie, ma nel febbraio 1854 il Commodoro Perry faceva una seconda visita con una squadra di navi più imponente e minacciosa della prima. Il 31 marzo 1854 veniva stipulato un trattato di dodici articoli in cui, tra l'altro, si concedevano, come scalo alle navi americane, i porti di Shimoda e Hakodate e un permesso di residenza a Shimoda per un ministro plenipotenziario. La firma del trattato suscitò grande sdegno in tutto l'impero giapponese. Si formarono due fazioni, quella che appoggiava la decisione dello shogun, e quella, formata dai sostenitori dell'imperatore, che reclamavano l'espulsione dei "barbari" americani e la revoca di un trattato ignominioso ed iniquo, imposto con la minaccia delle armi.
Vale la pena di aggiungere che shogun era un grado militare corrispondente a comandante in campo delle forze armate. Dapprima provvisorio, il titolo divenne ereditario: dal 1603 al 1868 gli shogun della dinastia Togukawa furono i sovrani de facto che governarono il paese al posto dell'imperatore, sovrano de iure che viveva nel suo palazzo di Kyoto e che, in qualità di discendente degli dei, s'occupava soltanto di religione. Nel 1868, dopo qualche anno di guerriglia civile, le truppe fedeli all'imperatore entravano in Jedo, roccaforte dei fautori dello shogun. Col nome di Tokyo la città diventava la nuova capitale del Giappone: cominciava la nuova era del Meiji che sarebbe terminata nel 1912.

Questo è l'antefatto storico dell'arrivo di Mr. Townsend Harris a Shimoda, ma più che alla storia “Il barbaro e la geisha” (1958) attinge a un romanzo alimentare di Ellis St. Joseph i cui diritti erano stati acquistati dalla Fox per mettersi sulla scia del successo di Sayonara (1957). Sbarcato a Shimoda, Mr. Harris passa il tempo a smantellare il muro dell'ostruzionismo xenofobo e a far breccia nell'ostilità superba dello shogun Tamura per strappare il riconoscimento ufficiale della sua missione e instaurare regolari rapporti commerciali tra Stati Uniti e Giappone. Intanto il suo soggiorno è allietato dalla presenza di una graziosa geisha che, tradendo la missione affidatale - spiare le mosse dell'ospite indesiderato -, gli concede i tesori del suo cuore gentile e sottomesso. Occorre aggiungere che l'idillio tra Harris e la dolce Okichi si conclude con una lacrimosa rinuncia, come le regole etiche e drammaturgiche del codice hollywoodiano imponevano rigorosamente negli anni '50?
Descrittivo più che narrativo, il film cerca di sopperire alla staticità dell'azione e alla monocorde convenzionalità dei personaggi con una ricostruzione decorativamente raffinata del paesaggio, del folklore, dei costumi giapponesi. Soltanto lo spettatore che abbia cuore generoso e occhio attento può essere sensibile allo sforzo di dare al racconto le cadenze desuete e arcaicizzanti di un rapporto di viaggio in stile ottocentesco («Avevo raggiunto - dice Huston in un'intervista - risultati eccellenti sul piano plastico, e soprattutto avevo sviluppato una forma assai sottile di racconto, più lineare che drammatico»).Il confronto tra due civiltà, il conflitto tra una società aristocratica di antiche raffinatezze e la rude goffaggine provinciale di un barbaro americano sono temi enunciati più che espressi, spettri informi che vagolano in un racconto inerte, nemmeno ravvivato da quella che è, anche nei suoi film più distratti e disimpegnati, una delle meno discutibili capacità del regista: la galleria dei personaggi minori. “Il barbaro e la geisha” è, insomma, un film irrecuperabile anche perché Huston fu costretto ad abbandonarlo al suo destino, terminate le riprese. per prendere un aereo diretto a Parigi dove l'attendeva Darryl Zanuck per affidargli la direzione di un altro film africano, “Le radici del cielo”.
Era stato Huston a proporre John Wayne per la parte di Townsend Harris. La proposta si presta a interpretazioni contrastanti, perché, cercando di immaginare le intenzioni del regista, può essere intesa in termini di ironia critica nei confronti del personaggio. Conveniva, però, anche ai boss della Fox che nel film scorgevano probabilmente un progetto assai più conforme all’ideologia dell’imperialismo economico a stelle e strisce. Sta di fatto che durante le riprese la prevedibile incompatibilità di carattere e di idee tra attore e regista provocò attriti e bisticci. Partito Huston, John Wayne assunse il controllo della produzione e, col beneplacito dell’esecutivo della Fox, rigirò alcune sequenze per dare maggiore risalto al suo prestigio atletico e divistico, ne inserì almeno una inedita, quella dell’incontro di lotta giapponese, e impose le sue esigenze di star al momtaggio.
Dirà in seguito Huston: «John Wayne è un uomo che non stimo...il pensiero del massacro sul mio film che stavano commettendo al di là dell'Atlantico non era tale da stimolarmi nel lavoro su “Le radici del cielo”; così, invece di un fiasco solo, ne ebbi due, e di grossa taglia.»
(Morando Morandini, dal volume su John Huston del “Castoro Cinema”)


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