martedì 26 ottobre 2010

La Grande Mouna

Il Casanova di Federico Fellini (1976) Regia: Federico Fellini. Liberamente tratto da "Storie della mia vita" di Giacomo Casanova. Sceneggiatura: Federico Fellini, Bernardino Zapponi. Fotografia: Giuseppe Rotunno. Musica: Nino Rota. Canzoni: "La grande mouna" di Tonino Guerra, "La mantide religiosa" di Antonio Amurri, "Il cacciatore di Wurtemberg'' di Carl A. Walken, versi in dialetto veneziano di Andrea Zanzotto. Ideazione scenografica: Federico Fellini. Scenografia e costumi: Danilo Donati. Architetto: Giantito Burchiellaro, Giorgio Giovannini. Aiuto scenografo: Antonello Massimo Geleng. Arredamento: Emilio D'Andria. Effetti speciali: Adriano Pischiutta. Interpreti (in questa scena): Donald Sutherland (Casanova), Sandra Elaine Allen (la gigantessa), Vim Hiblom (Egard), Mario Gagliardo (il cocchiere), e altri. Durata: 170'.
C’è un aneddoto divertente su un grande direttore d’orchestra, mi pare che fosse Tullio Serafin (ma altre fonti lo riferiscono al triestino Victor De Sàbata): aveva notato che si cominciava a dire “maestro” un po’ a tutti, ai cantanti, agli orchestrali, perfino al regista. In musica, “maestro” ha un significato abbastanza preciso, indica il concertatore oltre che il direttore: non è quindi un titolo che si regala a tutti, o almeno così era a quei tempi. E’ per questo che una volta Serafin fu sentito dire: «Maestro, maestro... qui i xe tuti maestri. Allora a mi ciamàteme mona.»

Nell’area veneta, “mona” è una parola molto usata. Di per sè, indicherebbe il sesso femminile: ma nel senso usato da Serafin significa “stupido, persona da poco”. In più, bisogna dire che i veneziani, e anche i triestini, quando devono mandare qualcuno in un certo posto non fanno come gli altri italiani, sono molto più gentili e lo mandano “in mona”. Che è sempre piuttosto volgare, ma io personalmente lo trovo un invito molto più sensato e molto più piacevole. Come faccio ad arrabbiarmi con uno che me dise “ma va’ in mona”? Ammetterete che non è possibile, al massimo l’arrabbiatura durerà cinque minuti, poi mi scappa da ridere.

Un altro triestino famoso, ma in un altro campo e con altre competenze, era l’allenatore di calcio Nereo Rocco: che col Milan vinse moltissimo, anche in Europa e nel mondo, negli anni ’60 – e che dal Milan di oggi è stato rimosso e dimenticato, un peccato. Di lui si racconta che un giorno, vedendo due calciatori che per scherzo durante l’allenamento giocavano a portarsi in spalla, li rimbrottò dicendogli che tutti e due insieme facevano una città dell’Abruzzo. Era qualcosa come un rebus, o una sciarada: la città dell’Abruzzo era Sulmona, un nome che nell’area veneta suona molto divertente (cosa che, tra parentesi, capita anche al nome del paese in cui abito io: che è lombardo ma fa ridere i meridionali).

Tutto questo sproloquio mi serve per introdurre la scena centrale del “Casanova” di Fellini, che si intitola appunto “La Grande Mouna”, dove la differenza di grafia (e di pronuncia) è dovuta al fatto che i versi che vi vengono recitati sono stati scritti da Tonino Guerra, che è romagnolo, e al luogo dove si svolge l’episodio, che è Londra: in inglese, Mona (come Mona Lisa) si pronuncia più o meno così.
Casanova era veneziano, quella parola la conosceva di sicuro; ma questo è il momento in cui Fellini si distacca maggiormente dalle “Memorie” del vero Casanova, e si lascia andare alla sua fantasia. E’ il cuore del film, se mi si permette il bisticcio anatomico; forse la sua vera origine e la sua ragione d’essere. La Grande Mona ha dei riferimenti precisi: certamente la risalita nell’utero materno, ma anche Pinocchio, e la Bibbia con il libro di Giona, che fu inghiottito dalla balena (e poi rilasciato) perché si era rifiutato di obbedire al suo destino, ribellandosi a Dio; e anche, perché no, Moby Dick di Hermann Melville: soprattutto per l’ambientazione britannica.
Il tema è un po’ spinto, ne chiedo scusa; ma come si vede è tutt’altro che banale o scontato.

Intorno alla metà del film, Casanova è a Londra. Per la prima volta nella sua vita, è solo e disperato: ma la sorte cambierà presto, spinto dalla sua innata curiosità il veneziano tornerà a immergersi nel mondo. Non so se un episodio simile sia presente nelle Memorie di Casanova, che io non ho mai letto; ma a questo punto Fellini si inventa un grande circo, una grande fiera con attrazioni di ogni tipo (un Paese dei Balocchi?). Fra le attrazioni, una visita nel ventre di una balena: la Grande Mouna. Questo brano, come è chiaramente scritto nei titoli di coda, è stato scritto da Tonino Guerra.Fate attenzione allo strumento che ha in mano l’imbonitore: visto così sembra poca cosa, ma ecco quello che ne dice Anthony Baines in “Storia degli strumenti musicali” (Rizzoli, 1983): «Crepitacoli e Raschiatoi. I crepitacoli si prestano ad introdurre il rapporto tra musica e magia. Essi spesso hanno un significato magico-religioso, e fanno di frequente parte dell'armamentario dello sciamano ... Anche strumenti di struttura progredita come il sistro fanno parte del gruppo dei crepitacoli; gli oggetti risuonanti in questo caso sono sospesi ad un telaio che è scosso con le mani come un sonaglio per bambini. Il sistro è noto nell'Antico Egitto, a Roma, in Etiopia, in Mesopotamia, nel Caucaso, nell'Africa Occidentale, in Malesia e presso le tribù delle due Americhe. Nel caso di recipienti crepitanti quali la maraca, al suono percussivo degli oggetti che si urtano tra di loro si aggiunge un rumore sibilante causato dallo sfregamento contro le pareti del contenitore, non dissimile dal rumore di un'onda in riflusso su una spiaggia ghiaiosa, e sono proprio il moto e il rumore confricatori di tal fatta ad aver conquistato l'immaginazione primitiva dell'uomo, esattamente come nel caso dei raschiatoi... In Mesopotamia, a Giava, in India, a Cuba e in Europa, il raschiatoio apparve nel suo stadio più recente, in forma meccanizzata: la superficie corrugata assunse la forma di una ruota dentata di legno fissata ad una impugnatura ed inserita in un telaio, la bacchetta si trasformò in una lamella di legno a cremagliera, e il movimento generatore del suono fu assicurato facendo roteare il telaio attorno all'impugnatura. Nel Medio Evo era possibile ascoltare la “raganella” in chiesa. durante la settimana di Pasqua - funzione questa che ben si accorda con i poteri magici attribuiti ai raschiatoi nei riti tribali, e che prelude al loro uso come allarme antigas nell'ultima guerra...Uno tra i più diffusi nomi italiani dello strumento in questione è raganella, derivato dall'assimilazione del suo tipico suono al gracidio di una rana. Numerose sono le denominazioni regionali e dialettali (traccola, troccula, matracca, ecc.) che danno il senso della diffusione dello strumento legato tuttora ai riti della settimana santa.» (Anthony Baines in “Storia degli strumenti musicali”, ed. Rizzoli, 1983)

LA GRANDE MOUNA.
L’imbonitore (con uno strumento in mano, chiamando la folla): The Great Mouna! La regina delle balene! Il Leviatano di Giona! Tutti quanti possono entrare, il ventre è ancora caldo: è una balena femmina. Guardate, la sua bocca vi invita ad entrare. Avete paura? Chi non entra nel ventre della balena non troverà mai il suo tesoro: così dice l’antico libro della saggezza. Entrate e vedrete, giù per la gola e ancora più in fondo, nella pancia della Grande Mouna...
La Mouna è una porta che conduce chissà dove,
un muro che devi buttare giù. (ride)La Mouna è una ragnatela, un imbuto di seta,
il cuore di tutti i fiori. (ride)
La Mouna è una montagna bianca di zucchero,
una foresta dove passano i lupi,
è la carrozza che tira i cavalli.
(ride ancora; con lui ridono le donne sull’altalena)La Mouna è una balena vuota,
piena d’aria nera e di lucciole,
un forno che brucia tutto.
(volto di donna guerriera, dall’aspetto terribile)La Mouna, quando è ora,
è la faccia del Signore;
è la sua bocca. (ride ancora)
(uomini salgono la scaletta che porta all’interno della balena)
E’ dalla Mouna che è venuto fuori il mondo
con gli alberi, le nuvole, gli uomini;
uno alla volta, di tutte le razze:
dalla Mouna è venuta fuori anche la donna...
Evviva la Mouna, la Mouna, la Mouna... (ripete più volte, sfumando)

All’interno della balena, lanterna magica con i disegni di Roland Topor.

E’ qui che Casanova ritrova un vecchio amico, l’inglese Egard (l’attore è Vim Hiblom). Egard sta fumando da una pipa molto elaborata, quasi sicuramente è oppio. E’ molto probabile che Fellini abbia disegnato Egard dai suoi incontri con Carlos Castaneda; il dialogo che segue è in ogni caso molto interessante.
Egard: Giacomo, ma cosa fai qui tu?
Casanova: Egard! E’ strano incontrarti ora... Forse puoi aiutarmi, ascolta.
Egard (declama dei versi): “Quando sono ubriaco / non conosco nè cielo né terra; / io giaccio solo, immobile nel mio letto / finché alla fine io dimentico anche di esistere. / E in quel momento / sconfinata è la mia felicità. “ Lung-ho-tse, poeta cinese dell’Ottavo Secolo.

Casanova: Tu viaggi in terre che non esistono, Egard.
Egard: Oh, Giacomo...
Casanova: Anch’io viaggio molto, ma nella realtà.
Egard: Ma i tuoi viaggi attraverso il corpo delle donne dove ti portano? In nessun luogo...
Casanova: Mi è accaduto uno stranissimo fatto. Nauseato dalla vita, volevo uccidermi; ero già immerso nelle acque fredde del fiume, recitando un sonetto del Tasso, quando ho visto passare una donna straordinaria, alta più di sette piedi,. Ha destato la mia curiosità e ho cercato di seguirla, ma è sparita e non spero più di trovarla.
Egard: Tu l’hai trovata, Giacomo: lei è qui.

Della gigantessa, che è veneziana come Casanova (e che non è la signora ritratta qui sotto), parleremo più avanti. Per oggi, chiudo riportando il sonetto del Tasso così come viene recitato da Casanova mentre era immerso nelle acque fredde del fiume:
Casanova: Presto io sarò pronto per entrare nelle antiche corti degli antichi uomini. Nella pace del limbo da loro verrò accolto, conoscerò Orazio, Dante; converserò con Petrarca, con Ariosto, e con te, Torquato Tasso, mio grande amico...
Oh, Morte, oh posa in ogni stato umano!
secca pianta son io che fronda ai venti
più non dispiega, e più m’irrigo invano.
Deh, vien, morte soave, ai miei lamenti ;
vieni, o pietosa, e con pietosa mano
copri questi occhi e queste membra algenti...
(Torquato Tasso, finale del sonetto XI dalle “Rime amorose”)


2 commenti:

Anonimo ha detto...

E' vero, io questi post sul Casanova felliniano li avevo già letti tutti, eppure mi sembra che un po' li hai ritoccati. Questa cosa di Sulmona non me la ricordavo, ad esempio. Anche perché non ci avevo mai fatto caso prima... "sul mona"... :)

ps: è una città che mi piace molto Sulmona, da me è un po' lontana (quasi un'ora d'auto) ma cerco d'andarci di tanto in tanto.

Giuliano ha detto...

Ho iniziato il post in questo modo perché l'argomento toccato da Fellini è di quelli forti, penso che sia il più forte in assoluto. Ho cercato un po' di alleggerire, perché quel sonetto del Tasso (io l'ho trovato solo grazie a internet, sia chiaro! da solo non ci sarei mai arrivato) è molto esplicito.
L'Abruzzo un po' lo conosco, me ne raccontava spesso uno dei miei zii, che era di Cocullo. Il mio parere è che l'Italia più bella sia lì, fra Toscana, Umbria, Abruzzo, Marche, e dintorni.