martedì 11 gennaio 2011

Amarcord ( II )

AMARCORD (1973) Regia: Federico Fellini - Soggetto e sceneggiatura: Federico Fellini e Tonino Guerra, da un'idea di Federico Fellini - Fotografia: Giuseppe Rotunno - Musica: Nino Rota, diretta da Carlo Savina - Ideazione scenografica: Federico Fellini - Scenografia e costumi: Danilo Donati - Architetto: Giorgio Giovannini - Collaboratore scenografia: Antonello Massimo Geleng - Collaboratore costumi: Mario Ambrosino - Assistenti costumi: Rita Giacchero, Aldo Giuliani - Effetti speciali: Adriano Pischiutta - Durata: 127'.
Interpreti: Bruno Zanin (Titta Biondi), Pupella Maggio (Miranda, madre di Titta), Armando Brancia (Aurelio, padre di Titta), Stefano Proietti (Oliva, fratello di Titta), Giuseppe Ianigro (nonno di Titta), Nandino Orfei ("il Pataca", zio di Titta), Ciccio Ingrassia (Teo, lo zio matto), Carla Mora (Gina, la cameriera), Magali Noel (la "Gradisca"), Luigi Rossi (l'avvocato), Maria Antonietta Beluzzi (la tabaccaia), Josiane Tanzilli (la Volpina), Domenico Pertica (il cieco di Cantarel), Antonino Faà di Bruno (il Conte di Lovignano), Carmela Eusepi (la figlia del Conte di Lovignano), Gennaro Ombra (Biscein), Gianfilippo Carcano (Don Balosa), Francesco Maselli (Prof. di scienze Bongioanni), Dina Adorni (signorina De Leonardis, professoressa di matematica), Francesco Vona (Candela), Bruno Lenzi (Gigliozzi), Lino Patruno (Bobo), Armando Villella (Fighetta, professore di greco), Francesco Magno (il preside Zeus), Gianfranco Marrocco (il ragazzo conte Poltavo), Fausto Signoretti (il vetturino Madonna), Donatella Gambini (Aldina Cordini), Fides Stagni (professoressa di Belle Arti), Fredo Pistoni (Colonia), Ferruccio Brembilla (il gerarca), Mauro Misul (professore di filosofia), Antonio Spaccatini (il federale), Aristide Caporale (Giudizio), Marcello Di Falco (il Principe), Bruno Scagnetti (Ovo), Alvaro Vitali (Naso), Ferdinando De Felice (Ciccio), Mario Silvestri (professore d'italiano), Dante Cleri (professore di storia), Mario Liberati (proprietario cinema Fulgor), Marina Trovalusci e Fiorella Magalotti (le sorelle della "Gradisca"), Vincenzo Caldarola (il mendicante), Mario Milo (il fotografo), Cesare Martignoni (il barbiere), Mario Jovinelli (altro barbiere), Costantino Serraino (Gigino Penna Bianca), Amerigo Castrichella e Dario Giacomelli (amici del "Pataca"), Giuseppe Papaleo (il gagà), Mario Nebolini (segretario comunale), Bruno Bartocci (marito della "Gradisca"), Clemente Baccherini (proprietario caffè Commercio), Torindo Bernardo (il prete), Marcello Bonini Olas (professore di educazione fisica), Marco Laurentino (mutilato della Grande Guerra), Riccardo Satta (il sensale).

In “Amarcord” Fellini rappresenta un mondo che era ancora vivo negli anni 60-70, e che quindi in parte ho conosciuto anch’io. Per esempio, quel prete distratto durante la confessione; o i locali da barbiere con i dopobarba e la brillantina (un impataccamento che mi ha sempre disgustato), e anche la scuola elementare non era diversissima da quella che si vede qui. A casa mia, purtroppo, mancava il mare; e anche il Giro d’Italia e le Mille Miglia di qui non sono mai passati (il Giro sì, ma di gran corsa: quasi nemmeno il tempo di accorgersene).
Di alcune cose invece mi ricordo perchè me ne hanno parlato spesso: la nevicata di un metro e novanta, e i muri di neve in mezzo alle strade che oggi non si vedono più, perché si spala via tutto, ma i nati in quegli anni li ricordano bene. Muri di neve perché la neve bloccava tutto, era molto più saggio stare a casa con la neve invece di mettere le catene e le gomme da neve; si scavava il necessario per far passare le persone, e poco più.
Di mio, aggiungo il ricordo di quando (non molto tempo fa) la neve la buttavano nei campi e nei prati, campi e prati che oggi non ci sono più.
Fellini evoca anche il ricordo delle Mille Miglia, una corsa automobilistica che passava davanti alle case, e che provocò innumerevoli morti e incidenti: dopo l’ultima catastrofe, se non ricordo male proprio nel 1958, ci si decise ad abolirla. Fellini evoca questi incidenti con l’accenno all’orecchio umano raccolto dopo il passaggio del fascinoso pilota.
Il narratore che vediamo nel film è modellato su Tonino Guerra, molto somigliante, una caricatura ben disegnata. Tonino Guerra è il vero artefice delle scene più belle di “Amarcord”; che sono anche le meno citate e ricordate dalla critica.
La scena del matto sull’albero, per esempio, non è comica ma tragica; tragico e comico si mescolano spesso, nella nostra vita, e qui si vede bene la mano felice ("Die glückliche Hand", Arnold Schoenberg) di Tonino Guerra nel raccontare.
Non è un caso, tra l’altro, che la scena più bella di Amarcord sia anche la meno famosa e la meno citata, quella della nebbia: il nonno esce di casa e si perde dopo pochi passi, perché la nebbia è fittissima; pensa allora di essere morto di senza accorgersene, e che questo sia l’aldilà: una scena simile è anche nel Casanova, ma qui il nonno è davanti a casa sua, proprio vicino; ma accorgersene non è affatto facile, e il pensiero della morte diventa un compagno di strada abituale, quando non si è più giovani.
- Ma se la morte è così non è mica un bel lavoro...- dice il nonno, e quando scopre che non è come aveva pensato conclude il ragionamento con gestaccio (‘n tal kul!) che mi ha fatto molto ridere perchè questo sì, questo è davvero un intercalare romagnolo-ferrarese, il nonno è uno dei pochissimi personaggi ben doppiati di questo film. Ma la vera protagonista è la nebbia, che – oltretutto in mancanza di illuminazione stradale – ben pochi di noi oggi conoscono in queste dimensioni. Si può anche sorridere di questa scena, ma la nebbia, e la notte, senza le luci in strada e nelle case, sono davvero cose impressionanti.
A 1h25 c’è l’apparizione del toro bianco dalle grandi corna al bambino, a 1h48 c’è l’apparizione del pavone nella piazza, tra la nebbia e la neve: elementi mitici che pochi sono in grado di capire, più facile (e meno disturbante) memorizzare la gradisca, i faccioni del buce, le tette della tabaccaia, il rex, voglio una dona... Ma il film dura due ore, non sono solo quei dieci minuti lì. Sarebbe un bel trattato di psicoanalisi collettiva e individuale, ragionare sul perché ci si ricordi solo di quelle cose lì e non della morte, della nebbia, del Toro e del Pavone...
“Sono belli i sassi” rimanda a The shout di Robert Graves, messo in film dal polacco Skolimowski (lo dice Ciccio Ingrassia sulla carrozza: ma poi i sassi li tirerà addosso a quelli che vogliono tirarlo giù dall’albero). Anche l’albero “matto” rimanda a The shout: Fellini non dà un nome a quest’albero, che è però il partner perfetto per la follia dello zio, una vera simbiosi: come ha fatto a salire fin lassù, si chiedono tutti...
In Amarcord c’è una ragazza giovane e bella che recita un personaggio simile alla Saraghina di Otto e mezzo, ma nessuno se la ricorda. Nell’immaginario collettivo è rimasta la Saraghina: tutti ricordano la Saraghina e la Tabaccaia, ecco un altro momento che fa pensare. Ognuno si ricorda i film (e i fatti della vita) a suo modo; vedo che alla maggior parte della gente (e dei critici) sono rimaste in mente scene diverse da quelle che hanno colpito me, e ne prendo atto. Io, per me, mi ricorderei più volentieri della Volpina (l’attrice che la interpreta si chiama Josiane Tanzilli ed è molto ben fatta), piuttosto che della Saraghina e della Tabaccaia... Forse vale la pena di ricordare che la moglie di Fellini era una donnina minuta e poco appariscente: Fellini (si sa) ebbe molte avventure, ma la sua Giulietta se la tenne vicina per cinquant’anni. Un conto è divertirsi, scherzare, un altro conto è la realtà, quando si vive veramente.
La musica di Rota, pur piacevole, è comunque la citazione e il ricordo di cose già fatte, temi già sentiti; come per tutto il film, la mia impressione è che anche Rota, come Fellini, abbia voluto dare al pubblico quello che si aspettava (“volete una musica felliniana? eccola qua!”), ed è bella musica, ma Nino Rota sapeva fare anche di meglio. Nella colonna sonora c’è spazio anche per canzoni famose: Stormy weather, Abat jour, e altre ancora; ma qui è probabile un leggero anacronismo, forse non tutte queste musiche erano già state scritte in quegli anni.
Molto bello il logo, la scritta Amarcord e il manifesto del film
Concludo questo miei ragionamenti su “Amarcord” pensando a Maurice Ravel, che diventò famoso di colpo grazie al suo “Bolero”: del quale l’autore ebbe a dire che “è una musica che può scrivere qualsiasi studente di Conservatorio”. Forse non è proprio così, però posso assicurare che il Bolero è bello ma che davvero Ravel ha scritto cose molto più belle; e che Schubert è grandissimo, ma non certo per l’Ave Maria; che Leonardo non merita di essere ricordato solo come l’autore della Gioconda, eccetera. Con queste cose qui, quelle come Amarcord, finisce che vinci l’Oscar, ma – ed è una cosa che capita a tutti i grandi - la vera grandezza è altrove. Come per Ravel col bolero, l’anima vera e più profonda di Fellini ( e di Schubert, e di Leonardo) risiede quasi sempre altrove, e non nelle opere più famose e più premiate.

8 commenti:

Marisa ha detto...

Vedo che hai fatto un tuo Amarcord personale e forse questo è il miglior omaggio al film.
Io, che non ho dimestichezza diretta con il dialetto romagnolo, sono stata meno disturbata dai doppiaggi ed anzi mi sono molto divertita anche a sentire Ciccio Ingrassia (sarà per la mia simpatia per i matti in generale, qualsiasi lingua parlino...)
Certo che la scena della nebbia è fenomenale e a me è rimasta particolarmente impressa. Forse per il suo sapore surreale o perchè mi è sempre sembrata l'immagine migliore per descrivere le nostre paure, quando ormai si sono dileguate...

Giuliano ha detto...

Amarcord è anche il film da cui sono partiti tutti i Pierini con Alvaro Vitali, ma penso che Fellini ne fosse molto consapevole. Non a caso, sia con Satyricon che con Casanova, ha deluso molte aspettative. Ci si aspettava da lui il film "grasso", visti gli argomenti, e invece ne ha fatto un'altra cosa; ma con Amarcord ci ha dato dentro, e il grande successo del film si spiega anche così.
L'apparizione del toro bianco nella nebbia è straordinaria, qui ci sarebbero voluti i grandi psicoanalisti e antropologi e storici delle religioni, idem per il pavone...
Parlare con le immagini è un dono riservato a pochi, anche al cinema. Fellini aveva questo dono, e se pensi all'abisso che si apre davanti a Toby Dammitt, o alla scena dell'apparizione della gigantessa nel Casanova, o il ventre della balena, il giro nella metropolitana di "Roma"... Ne avresti di materiale per discutere!
:-)

Marisa ha detto...

Visto che ti interroghi sul toro bianco e sul pavone posso azzardare le mie impressioni ricordando le loro associazioni ed apparizioni in mitologia. Il toro bianco, nella mitologia greca è direttamente associato a Zeus perchè rappresenta una delle sue trasformazioni, (quando ha rapito Europa )e a Nettuno a cui veniva sacrificato. E' quindi il simbolo di una energia maschile molto potente che era rappresentata e venerata sotto forma di toro soprattutto a Creta in epoca minoica. Lo ritroviamo poi nel culto di Mitra (tauromachia rituale, da cui derivano ancora le corride spagnole...)e in oriente come Nanda, il toro bianco che è la cavalcatura di Shiva. Sempre quindi associato ad energie maschili.
Il pavone invece è legato ad Era, la moglie di Zeus, in quanto lei lo aveva scelto come suo rappresentante dopo la morte di Argo (il guardiano dai cento occhi del giardino delle esperidi a lei sacro),ed è quindi associato ad energie femminili. Il fatto che hai trovato una immagine di Krishna sul pavone può alludere all'ambiguità sessuale presente sempre nella divinità indiana in quanto spesso viene raffigurato insieme a Parvati come ermafrodito.
Non so se consciamente o inconsciamente Fellini ha perciò inserito nel film due immagini altamente rappresentative del maschile e del femminile: il toro con la sua diretta e prorompente potenza istintuale e il pavone con la sua bellezza un pò narcisistica e la tendenza a guardare e farsi guardare( i cento occhi di Era per controllare le scappatelle di Zeus e i trucchi femminili per riconquistarlo...)

Giuliano ha detto...

Su Fellini e la mitologia, o su Fellini e gli archetipi, ci sarebbe da scrivere un libro, o una tesi di laurea, o magari un bel documentario come quello su Jung, pieno di immagini e di rimandi.
Fellini scherzava, minimizzava, mandava gentilmente a quel paese chi gli chiedeva lumi, ma queste immagini sono profondissime - la Saraghina, l'abisso di Toby Dammit, il rinoceronte di E la nave va...

AF ha detto...

Interessante questa osservazione sulle scene collettivamente ricordate e quelle collettivamente dimenticate (io a questo punto però mi fregio del fatto che in classe faccio vedere appunto il toro bianco di "Amarcord" e la visita alla metropolitana di "Roma"). Per quanto riguardo le canzoni non credo siano anacronismi, per quanto ricordi sono tutte plausibilmente già circolanti negli anni Tranta, anche se alcune hanno continuato ad aver successo con diverse interpretazioni anche per decenni a seguire (e il motivetto di Nino Rota è proprio creato per imitare quelle canzoni e canzonette lì, unico pezzo di invenzione: lo si vede bene nel medley del ballo in terrazza). Una curiosità: è già la seconda volta che leggo in questo blog Buce per Duce, è un gioco di parole che non colgo? La prima volta avevo pensato fosse in riferimento a Berlusconi, ma qui non tornerebbe.

Giuliano ha detto...

Buce è una parola usata da Carlo Emilio Gadda :-)
proprio in quel senso lì
Un caso di rimozione esemplare è in "Dead poets society" di Peter Weir, da noi L'attimo fuggente. Se ci si fa caso, quasi tutti si fermano al professore e agli studenti in piedi sui banchi, ma nel film si parla del suicidio degli adolescenti, e con enorme risalto. Per Fellini, questo luogo comune delle donne "felliniane" è di una superficialità stucchevole. Se si fa l'elenco delle attrici di Fellini si vede bene che è vero il contrario, perfino Sandra Milo era in ottima forma fisica (Yvonne Furneaux, Anouk Aimée, Claudia Cardinale, Giulietta Masina...)

AF ha detto...

Ah ecco, ero sicuro ci fosse una spiegazione interessante per Buce ;)

Giuliano ha detto...

Gadda scriveva anche Maldito