venerdì 21 gennaio 2011

Woodstock

- Woodstock: (1969, USA). Regia: Michael Wadleigh. Alcune sequenze sono state filmate da Martin Scorsese.  Con Jimi Hendrix, Crosby Stills & Nash, Jefferson Airplane, Country Joe & The Fish, Joan Baez, Santana, Richie Havens, The Who, Joe Cocker, Janis Joplin, Ten Years After, Sly and the Family Stone, Canned Heat, Arlo Guthrie, Sha Na Na, John Sebastian. Durata: 216 minuti.
- Stamping ground – Love and music (1971, Rotterdam): Regia di Hans Jurgen Pohland e George Sluizer. Con: The Byrds, Canned Heat, Soft Machine, Pink Floyd, Dr. John, Santana, It’s a Beautiful Day, Country Joe Mc Donald, T-Rex, Ekseption. Durata: 83 minuti.

All’uscita da scuola, in un pomeriggio della prima metà degli anni ’70, corse voce che in un cinema di Como stava per arrivare un film su un festival rock. Fu così che anch’io decisi di andarci, e mi ritrovai nel cortile del cinema Plinio di Como insieme a tutti gli altri 15-16enni della mia generazione, quasi che ci fosse stata una chiamata generale. Me ne ricordo ancora perché si trattava di una delle mie prime “uscite” da casa, in un clima quasi sessantottino; e ne scrivo qui perché sto provando a rendere l’idea di quanto era difficile vedere un film sul rock in quegli anni.
Non era Woodstock, era il ben più modesto “Stamping ground” (Love and music, 1971), una delusione sotto molti punti di vista, anche se i nomi dei rockers presenti (per un raduno tenuto a Rotterdam) erano di primo piano. “Woodstock” non sarebbe mai arrivato nei cinema di Como, non in quegli anni (me ne sarei accorto), e lo avrei recuperato in parte negli anni successivi, quando ormai – a dire il vero – per me aveva perso quasi tutto il suo interesse. Io non avevo più sedici anni, e avevo preso altre strade.
Ma in tv di rock proprio non ce n’era, e neanche in radio. Di questi film si parlava come di qualche mostro favoloso, l’attesa c’era davvero, e c’era anche la voglia di uscire dal circolo vizioso delle Canzonissime e dei Sanremi. Mi ricordo ancora, sempre di quegli anni, la volta che diedero in tv “Pink Floyd at Pompei”: su Raidue (pardon: sul secondo canale), verso mezzanotte, in bianco e nero. Roba da star su alzato apposta, col volume basso che se no si disturba, a guardare Roger Waters perso in chissà quali viaggi interstellari, o sussurrare “careful with that axe” a un immaginario Eugenio, tra nubi di fumo che si supponeva colorato, sullo sfondo delle rovine della città sepolta dal Vesuvio. Tutto quello che aveva a che fare col rock era ancora circondato da un alone di disapprovazione, quasi una malattia che aveva a che fare con l’adolescenza e che sarebbe passata, si spera, senza avere a che fare con la droga...
Un mondo inimmaginabile per i sedicenni di oggi. Oggi a passare alle due di notte in tv (un nonsenso assoluto) sono i concerti di musica sinfonica, e il rock e il pop spadroneggiano a qualsiasi ora. Una vendetta della mia generazione, si direbbe: purtroppo, più prosaicamente, la verità è che spesso si tratta di rock e pop di scarsa qualità, e soprattutto che il mercato ha scoperto subito che il rock e il pop rendevano e si potevano abbinare meglio agli spot pubblicitari; e nello stesso pentolone degli artisti “proibiti” come Jimi Hendrix, Tim Buckley e Bob Dylan, ha messo anche i reduci da Sanremo e Canzonissima, le Britney Spears, gli Albano e i Vascorossi. E anche sulla droga c’è poco da scherzare: all’epoca era una cosa tremenda, che marchiava inevitabilmente chi ne faceva uso. Oggi le droghe sono anche peggiori, però non marchiano così tanto il fisico: sono ovunque ma non si vedono, e si può far finta che non esistano anche se a farne uso è il tuo compagno di banco.
Ho rivisto di recente il film documentario sul festival rock tenuto a Woodstock nel 1969. Per chi non lo sapesse, si trattò di un evento epico: era uno dei primissimi raduni giovanili, con bande rock memorabili, preceduto dal festival di Monterey (dove Jimi Hendrix si fece conoscere, lasciando tutti a bocca aperta), e seguito dal raduno dell’isola di Wight, in Inghilterra, e dal Concerto per il Bangla Desh voluto dall’ex Beatle George Harrison. Prima, prima di Woodstock, c’erano stati i grandi raduni del folk e del blues, soprattutto in America, dove si esibiva un giovanissimo Bob Dylan; ma questa è un’altra storia.
Le parti che mi sono piaciute di più, viste da oggi, sono quelle documentarie: i momenti in cui si mostrano i ragazzi e le ragazze, le corse nel fango, le code per telefonare a casa, le interviste agli addetti alle pulizie (importantissimi!), i momenti di pausa. Queste sequenze sono ancora oggi interessanti.
La parte musicale invece mi lascia sempre più perplesso ogni volta che la rivedo. Non perché sia brutta, ma perché esistono altri filmati su Woodstock, e sono quasi sempre migliori di quelli che vediamo nel film. L’esempio più clamoroso riguarda i Jefferson Airplane, che è un gruppo californiano splendido, del quale però è difficile capire la grandezza guardando e ascoltando i brani scelti per il film. Spettacolari le sequenze con Hendrix e con i Santana (la fusione del rock e del blues con la musica latino americana era una novità assoluta, e fece subito furore), imbarazzante e del tutto fuori contesto l’esibizione degli Sha na na. Mancano del tutto, in parte per motivi di diritti non concessi, nomi importanti che a Woodstock si sono esibiti: Tim Hardin, Incredible String Band, Ravi Shankar, Grateful Dead, Creedence Clearwater Revival, The Band, Johnny Winter, Paul Butterfield.
Furono invitati ma non parteciparono, per vari motivi, Bob Dylan, The Doors, Joni Mitchell, Iron Butterfly, Led Zeppelin, Procol Harum, Frank Zappa, Jethro Tull, Byrds, Moody Blues, e altri ancora: l’elenco completo con il dettaglio del perché non vi andarono è su Wikipedia. Ma di Woodstock si è parlato e si è scritto molto, penso che non sia il caso di dilungarsi in questa sede.
Come documentario, “Woodstock” è comunque bello, ma penso che andrebbe rimontato, e non solo per la parte musicale: le interviste e i commenti sono a volte banali o forzati, e il doppiaggio italiano è spesso fastidioso (le immagini mostrano un ragazzo o una ragazza parlare con calma e sorridere, mentre il doppiaggio enfatizza tutto inutilmente). Il regista Michael Wadleigh, che firma il film, ha girato in seguito pochi film e qualche documentario (ricordo “Wolfen la bestia immortale” del 1981, con Albert Finney, che nonostante il titolo italiano è un buon film sul paranormale); qui Wadleigh sovrintende a un gruppo di operatori che filmano tutto il filmabile, alcuni dei quali in seguito sarebbero diventati importanti, come Martin Scorsese.
Dal punto di vista tecnico-spettacolare, il film su Woodstock è un esemplare raro di cinema in cui lo schermo viene diviso in tre parti, o in due: qualcosa di simile era stato fatto negli anni ’20 dal francese Abel Gance con il suo “Napoléon”, e al cinema, su grande schermo, era certamente un effetto spettacolare e molto originale. Dubito che sia ancora bello da vedersi oggi, quando ormai “Woodstock” non si può più vedere nella sua destinazione originaria. Soprattutto, se visto in dvd non se ne capisce l’utilità: ma non era un semplice effetto speciale, piuttosto uno stile di montaggio cinematografico, quasi un marchio d’autore.
La sequenza che preferisco, va da sè, è quella della band di Carlos Santana (anche i ritmi latinos erano, all’epoca, una novità assoluta); e quelle che mi sono rimaste di più nella memoria sono quelle relative all’immensa quantità di fango nei campi intorno al palco, dovuta alla pioggia abbondante di uno degli ultimi giorni del festival. A causa delle brevissime sequenze di nudo, “Woodstock” fu vietato ai minori: se oggi sembra ridicolo, si sappia che lo era già anche allora.
Vorrei sottolineare ancora l’esibizione di Country Joe & The Fish, un’ottima band e un ottimo cantante, i più impegnati politicamente, all’epoca famosissimi anche per i loro testi spietati contro la guerra in Vietnam e contro il mito del militarismo; in Vietnam, a differenza di quanto succede oggi, andavano anche i militari di leva, e non soltanto i volontari (è di Country Joe l'immagine che ho messo in apertura).
Ma per me Woodstock è rimasto qualcosa di lontano: ero troppo piccolo quando si fece il festival, roba da fratelli maggiori; e del rock (fatte salve le dovute eccezioni) mi sarei stancato presto. Troppo ripetitivo, e troppa roba commerciale...

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