lunedì 7 febbraio 2011

Lisbon Story ( III )

Lisbon Story (1994). Scritto e diretto da Wim Wenders. Fotografia: Lisa Rinzler. Montaggio: Peter Przygodda, Anne Schnee. Scene: Zé Branco. Musica per il film: Madredeus (l’album “Ainda”). Colonna sonora: Jürgen Knieper. Prodotto da Paulo Branco. Durata: 105 minuti.
Interpreti: Rüdiger Vogler, Patrick Bauchau, i Madredeus, Manoel de Oliveira, Vasco Sequeira (camionista), Canto e Castro (il barbiere), Viriato Jose da Silva (lustrascarpe), João Canijo (truffatore) bambini e ragazzi: Ricardo Colares (Ricardo), Joel Cunha Ferreira (Zé), Sofia Bénard da Costa (Sofia), Vera Cunha Rocha (Vera), Elisabete Cunha Rocha (Beta)
I Madredeus: Teresa Salgueiro (voce), Josè Peixoto (chitarra), Pedro Ayres Magalhaes (chitarra), Francisco Ribeiro (violoncello), Gabriel Gomes (accordeon), Rodrigo Leao (percussioni).

Manoel de Oliveira appare al minuto 71: si inizia con un suo primo piano, in studio, mentre Rüdiger Vogler registra la sua voce come tecnico del suono; poi (a metà discorso) ci si sposta in strada, con la cinepresa a manovella che finge immagini degli anni ’20, ed è ancora Oliveira, sorridente, che imita in maniera sorprendente prima Pessoa e poi Charlot. Il tono della sua voce rimane costante, sempre sommesso, dizione chiarissima, senza mai alzare la voce.
- Egli non è più della Terra, ma permane in quale luogo? Esisterà davvero un luogo per i santi? Dio esiste...l’Universo è stato creato da Lui. E a chi serve, l’Universo? Se il genere umano, se l’umanità scomparisse, l’universo sarebbe inutile o forse ha una sua funzione al di là dell’esistenza degli uomini? Noi...noi vogliamo imitare Dio; per questo esistono gli artisti. Gli artisti vorrebbero ricreare il mondo, come fossero piccoli dei. E fanno una serie di ripensamenti continui sulla storia, sulla vita, su tutto quello che succede quaggiù o su quello che la gente crede che sia successo, solo perché crediamo, sì, perché alla fin fine noi crediamo nella memoria, perché tutto è passato. E chi ci garantisce che quello che immaginiamo che sia passato, sia passato realmente? A chi dovremmo chiedere? Questo mondo, questa ipotesi, allora è un’illusione. La sola cosa vera è la memoria, ma la memoria è un’invenzione. (...) Nel cinema la cinepresa può fissare un momento, ma quel momento è già il passato. In fondo, quello che fa il cinema è far rivivere il fantasma di quel momento; ma abbiamo la certezza che quel momento sia mai esistito al di fuori della pellicola? O la pellicola è la garanzia dell’esistenza di quel momento? Non lo so. O diciamo che ne so sempre di meno. Viviamo, insomma, in un dubbio permanente. Per il momento, viviamo con un piede per terra, mangiamo, gustiamo la vita...
(Manoel de Oliveira, discorso da "Lisbon Story" di Wim Wenders)

Ammetto di aver capito poco del discorso di Oliveira, che forse però va collegato alle riflessioni personali di Wenders: ne ascoltiamo molte, soprattutto grazie al personaggio di Friedrich Monroe, il regista, che lascia molte sue meditazioni registrate sulle cassette. Ne trascrivo solo una parte, perché poco chiare e perché molto legate al percorso del film:
La voce registrata di Fritz, a 1h08: si parte dal filmare quasi senza accorgersene, girare a caso raccogliendo le immagini come arrivano: «....la solitudine è indispensabile per quello che sto facendo. Chi, se non un solitario, è disposto a perdere se stesso scivolando nella vita di una città?...» (eccetera: discorso che rimanda molto alle passeggiate di Ganz e Sander in “Il cielo sopra Berlino”)
Fritz a 1:26, sempre la sua voce registrata: dice che le immagini sono diventate inaffidabili. «...mentre noi crescevamo, le immagini erano narratrici di storie e di cose; ora sono tutte in vendita, con le loro storie e le loro cose. Sono cambiate sotto i nostri occhi, non sanno come mostrare nulla, hanno dimenticato tutto. Le immagini vengono svendute al di là del mondo, e con grossi sconti (in saldo)». Prosegue con riferimenti a Keaton (il cameraman), a Dziga Vertov...si pensava di fare cose importanti, invece non interessa a nessuno. Era l’idea di poter ricominciare dal principio, cent’anni dopo....
L’immagine mai vista, che può salvare il cinema, è il terminale delle riflessioni di Wenders in questo film: ma poi arriva l’amico Winter e la voglia di giocare, di fare cinema come una volta, riprende. Non so, è una conclusione che non mi convince: serve a far chiudere bene il film, con immagini divertenti, ma i quindici anni passati spingono a riflessioni poco ottimiste.
Oggi siamo tutti filmati, ovunque; e siamo obbligati ad esserlo. Le immagini del tipo che cercava di fare Bauchau in questo film sono ormai le uniche ammesse, immagini destinate a non essere viste, o viste e dimenticate all’istante; immagini riprese in automatico, da un robot. Immagini che violano anche la nostra intimità, il bodyscanner è ormai merce per guardoni, un tuo starnuto in strada che finisce su youtube senza nemmeno che tu lo sappia: questo è il vero finale della storia di Dziga Vertov, di cent’anni di cinema.
In “Lisbon Story”, Patrick Bauchau ha un archivio immenso di “immagini mai viste”: ma sarà così per tutti i cent’anni dai Lumiere in poi, nessuno avrà voglia di venire a guardare Chaplin, Wyler, Wenders, Fellini, Kubrick. Questo è il destino futuro del cinema del Novecento, essere completamente dimenticato dalle nuove generazioni: e siamo già molto avanti in questo lavoro d’oblio. “Classici”, ormai, sono Kitano e Tarantino: più in là non si va, a meno che non si voglia pescare dal cinema porno, o da Lino Banfi e Alvaro Vitali. Questa è l’unica memoria ammessa, e se volete fare di più siete davvero dei tipi strani, da guardare con sospetto: ecco là la vostra nicchia, se proprio volete, guardate pure Chaplin e Fellini, ma sbrigatevi e non fate rumore.

Il nuovo film del regista tedesco in anteprima alle manifestazioni per “Lisbona capitale d’Europa”.
WIM WENDERS: « PER AMORE DI FELLINI E DI PESSOA»
di fiorella minervino, corriere della sera 18.12.1994
Nella Lisbona dove il Fado continua a incantare con echi lontani di schiavi e marinai, dove talvolta pare di intravedere antichi vascelli stipati d'oro e di merci, nella città dove sempre più rimbombano i passi dello schivo e insuperabile giocoliere di parole e inquietudini, Fernando Pessoa, Wim Wenders ha presentato venerdì sera in anteprima mondiale la sua più recente fatica in occasione della manifestazione «Lisbona capitale culturale d'Europa», ormai in chiusura.
Centinaia di giovani hanno affollato il cinema Tivoli per ammirare Lisbon Story, il film che il regista di Düsseldorf ha dedicato alla città. Un film autobiografico, che narra le difficoltà incontrate da Wenders. «Un luogo - dice il regista - che amo profondamente: per ben due volte ho tentato invano di filmare Lisbona, ma non ci sono riuscito».
E’ il racconto di un viaggio, quello di Philip Winter (Rüdiger Vogler), un tecnico del suono che raggiunge in auto un amico regista a Lisbona (Patrick Bauchau) per girare assieme un documentario sulla città. Quando, dopo varie traversie, Winter raggiunge la casa del regista, non lo trova.
Tra sinfonie di azzurri che spaziano dalle acque del Tago al cielo limpido, agli «azulejos» che adornano la casa sgangherata dell'amico, alla presenza di un manipolo di bambini e del gruppo musicale «Madredeus» dominato da una bellissima cantante, Winter troverà finalmente, grazie anche a una banda di gangster, l'amico scomparso. Questi si chiama (non per un caso) Federico Monroe; dopo vani sforzi per filmare la città, si è isolato dentro una minuscola auto azzurra. Sarà Winter, che con i suoi singolari attrezzi ha catturato i suoni di Lisbona, a farlo tornare alla cinepresa e salire sopra un tram per filmare la città dove d'improvviso compare, vestito di scuro e con l'elegante cappelluccio, l'ometto pallido di nome Pessoa, mentre Totò col tipico passo si allontana in un vicolo.
- Questo è un film di omaggi. Fin da principio compare la foto di Fellini, appena può il protagonista legge Pessoa, c'è Totò, e chi altro ancora?
«Ho conosciuto e amato il Portogallo attraverso la lettura di Pessoa che adoro da lungo tempo. Il film è dedicato a lui, alle sue stravaganze e strabilianti intuizioni. Mentre lo giravo è morto Fellini, il grande Federico, perciò ho voluto ricordarlo con foto e titoli dei giornali di quei giorni e dando il suo nome al personaggio del regista; il cognome, Monroe, è il consueto omaggio a Marilyn. Per ciò che riguarda Totò, sono anni che lo studio, ma il film vuole soprattutto ricordare che il cinema compie cent'anni».
- Chi è, dunque, il protagonista vero?
«Lisbona. Dal documentario, a mano a mano ho creato una storia calata nella città».
- Perché tante difficoltà nel girarlo? Lisbona è una città di citazioni, dal fiume Tago che pare già oceano alle sue pitture, all'architettura antica che sembrano originate dalle Fiandre e dal gotico tardo, su su fino alla riproduzione dei Corcovado di Rio e del ponte che attraversa New York. Anche per testimoniare ciò ha usato tante citazioni?
«Uno dei nodi era questo: Lisbona è così complessa e composta da tante sottocittà, con realtà e derivazioni diverse, che ho dovuto scegliere alcune zone, luoghi e simboli. A mia volta mi son servito, come spesso succede, dei d’après».
- L'incapacità di creare immagini da parte di Federico Monroe e la sua liberazione grazie ai suoni della città, è stato anche un suo problema?
«Sovente un suono ci aiuta a capire o creare un'immagine: ho visto per la prima volta l'altra sera il film completo di sonoro. Ne sono rimasto parecchio deluso. L'acustica del cinema Tivoli era pessima: dovrò lavorarci ancora, migliorare i rumori e dunque le immagini. E’ un work in progress che sarà presentato in Italia in marzo, poi in Francia, Germania e in altri Paesi d'Europa».
- Come ha scelto la bella musica che accompagna il film?
«Mi parlarono dei gruppo "Madredeus": come li vidi nello studio capii che soltanto loro potevano vivere nel mio lavoro. Per ora della musica portoghese all'estero si conoscono solo il Fado e Amalia Rodriguez: sono certo che in futuro sarà il nome di questo gruppo a correre per le vie del mondo».
- Lei è ottimista sul futuro del cinema europeo?
«Soprattutto per quello europeo. Ci attende il compito di recuperare tanti "piccoli film" girati con pochi mezzi nelle diverse realtà locali d'Europa. Molti sono di livello assai elevato e, magari non li vedrà mai nessuno. Li dobbiamo scoprire e far conoscere: non è per caso che questo omaggio a Lisbona e al suo straordinario scrittore girerà per le sale d'Europa ma, su mia precisa volontà, non comparirà a nessun Festival».
Dopo aver precisato che il costo del film è di circa tre milioni di marchi, pallido e allampanato, vestito di scuro come l'amato Pessoa ma col ciuffo del ragazzo, Wenders si illumina di un sorriso quasi infantile per ricordare che ha appena terminato il film girato col suo idolo, Antonioni.


E’ in arrivo sugli schermi italiani “Lisbon Story”
WIM WENDERS: «LA MIA CINEPRESA NON È UN FUCILE»
di giuseppina manin, corriere della sera 28.2.1995
Se il cinema compie 100 anni, Wim Wenders quest'anno (il 14 agosto) ne festeggia 50, 25 dei quali spesi a fare film, da «Nel corso del tempo» a «Paris, Texas», al «Cielo sopra Berlino», a «Così lontano, così vicino».
Per niente preoccupato dello scorrere del tempo, incapace di perdere la sua aria da ragazzo timido, il ciuffo ribelle, il vestito nero e la camicia bianca senza cravatta, stile clergyman ma firmato Yamamoto, Wim celebra ora tante felici coincidenze con questo «Lisbon Story» (a giorni sugli schermi italiani), un omaggio al cinema, ai suoi Maestri, al suo passato, al suo futuro.
Dedicato a Fellini (si apre e si chiude con un «Ciao Federico»), il film ha come «special guest» Manoel de Oliveira, 87enne «santone» del cinema portoghese, che a sua volta si diverte a strizzare
l'occhio a Chaplin imitandone la buffa camminata.
- Fellini, de Oliveira... adesso Antonioni, al suo fianco per il nuovo «Al di là delle nuvole». Insomma, per andare avanti bisogna guardare indietro?
«I vecchi registi hanno una grande "chance": hanno visto tanti cambiamenti che difficilmente si fanno impressionare dalle novità, dalle "magie" dell'elettronica. Il loro sguardo non ha mai perso confidenza con l'immagine, mentre le nuove generazioni, io compreso, sovrastati dalle tecnologie, non abbiamo più quest'intimità. Fare l'assistente di Antonioni mi ha dato questo gran privilegio: stare su un set e poter osservare il film da un altro punto di vista. Dopo Portofino e la Provenza oggi Michelangelo ha iniziato le riprese a Parigi con Fanny Ardant e Peter Weller. Solo, perché io sono a Milano per il mio film. Lo raggiungerò domani, ma lui ormai non ha più bisogno di me, se la sbriga molto bene da solo».
- E lei, terminato il film con Antonioni, che farà?
«Volterò pagina. Il mio prossimo film, che sto scrivendo con lo sceneggiatore canadese Nicholas Klein, sarà "Million dollars hotel”, una storia di fantascienza ambientata a Los Angeles e tratta da un soggetto di Bono, il leader degli U2, che spero ne sarà anche il protagonista sullo schermo. Conosco Bono da anni, ha fatto le musiche per alcuni miei film. Il suo modo di lavorare è simile al mio: uno spettacolo come "Zooropa" è una riflessione sull'immagine e su ciò che sparisce. Cinema e rock sono fatti per allearsi: entrambi sono culture metropolitane, parlano della nostra epoca».
- Così lei non la pensa come il regista di «Lisbon Story», che dice che le immagini «sono spazzatura», che «svendono il mondo», e che l'innocenza perduta va ritrovata nel cinema artigianale
«No, io non spero nel recupero di un'età dell'innocenza. Il cinema, e anche noi, l'abbiamo ormai perduta. Credo però nel poter preservare altri valori: la tenerezza, la curiosità. Il mio punto di vista è quello del tecnico del suono (Vogler): le immagini non sono spazzatura, è lo spirito che c'è dietro a farle diventare spazzatura o no. Sì, il pericolo di puntare la cinepresa come un fucile esiste: si rischia di uccidere ciò che si vuol mostrare».
- Bertolucci a Bruxelles ha proposto la creazione di una «major» per tutelare il cinema europeo dall'invasione Usa.
«Mi pare una buona idea. Il cinema europeo "deve" salvaguardare la sua identità, Altrimenti verrebbe a mancare anche l'idea dell'Europa stessa, E potrebbe avverarsi la profezia di un 2000 ripartito tra americani che faranno film, giapponesi che produrranno video ed europei che costruiranno auto. Un incubo. Per sventarlo bisogna stare uniti. Tutti: europei e americani. Il buon cinema è causa comune».
«...è inevitabile che i bambini crescano con un senso delle immagini completamente diverso dal nostro. Per le nuove generazioni, le immagini sono soprattutto dei giocattoli, così come le macchine per produrle. Durante la mia infanzia, i miei genitori si preoccupavano perché c’erano troppi fumetti e pensavano che mi avrebbero rovinato; oggi ci sono i giochi elettronici e digitali e noi abbiamo paura perché pensiamo che i nostri figli stiamo perdendo qualcosa. Ma proprio per questo è importante capire che uso ne fanno.»
- Una messa in scena realizzata con mezzi artigianali e rudimentali dal rumorista Philip Winter-R.Vogler, una lezione da vecchio cinema che sorprende i ragazzi abituati ad avere a che fare con tecnologie avveniristiche...
«Viviamo in un’epoca in cui l’aspetto visivo è così preponderante che a volte le parole, i suoni, la musica, riescono a mettere l’immagine al suo posto e a proteggerla.»
« Questo film è tormentato dalle immagini. Da una parte fa paura, il fatto che all’interno della nostra cultura i film hanno inciso profondamente sui nostri rapporti con il mondo facendo sì che la gente oggi si mostri più sensibile ai film che alla realtà: dall’altra parte, quello dei film è l’ultimo territorio privilegiato nel quale sia possibile esercitare un controllo o dire quello che si vuole dire o proporre un punto di vista.»
- Ma è proprio a questo che Friedrich sembra aver rinunciato. Giunto a Lisbona con l’idea di girarvi un film come se il cinema non fosse ancora esistito, scopre che le immagini che gira non fanno vivere la città ma è come se la facessero sparire: «i nostri occhi – dice il personaggio – sono come pistole, uccidono le cose». Lo stesso personaggio, del resto, nel finale di Lo stato delle cose si difendeva dai colpi di pistola puntando contro i suoi aggressori la cinepresa...
(Espresso 20 gennaio 1995, recensione di Mario di Sesti a “Lisbon Story”)


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