giovedì 31 marzo 2011

Mosquito Coast

The Mosquito Coast (idem, 1986). Regia: Peter Weir. Dal romanzo di Paul Theroux. Sceneggiatura di Paul Schrader. Fotografia di John Seale. Musiche originali di Maurice Jarre. Interpreti: Harrison Ford, Helen Mirren, River Phoenix, Jadrien Steele, Hilary Gordon, Rebecca Gordon, Conrad Roberts, Andre Gregory. Durata: 118 minuti.

Mosquito Coast (alla lettera: la Costa delle Zanzare) è il luogo dove va a vivere il protagonista del film, ai margini della foresta vergine, lasciando gli USA per una precisa scelta di vita. Porta con sè la moglie e i quattro figli, due maschi intorno ai 14 anni e due gemelline più piccole: tutti gli vogliono bene e appaiono convinti, anche se un po’ perplessi, nell’affrontare la nuova avventura.
Apparentemente, dunque, una storia positiva: ma siamo lontani da Fitzcarraldo o dal mito di Robinson Crusoe, e anche da innocui telefilm americani come “Green acres” dove Lloyd Bridges era un distinto signore di città che decideva di andare a vivere in campagna.
Non è una storia positiva, invece: perché il nostro protagonista, interpretato da Harrison Ford, al di là delle apparenze non è un personaggio positivo. Ha molte buone intenzioni, questo sì: e anche molte competenze teoriche e pratiche, che gli permettono di risolvere quasi tutti i problemi che incontra. Ma anche le buone intenzioni possono portare alle catastrofi, e soprattutto – penso che sia questo il tema che interessava a Peter Weir – il suo rapporto con la Natura è completamente sbagliato.
Mosquito Coast rappresenta infatti anche il conflitto fra la città (l’urbanizzazione) e la campagna (la natura, il bosco, la montagna). L’uomo di città cambia radicalmente l’ambiente e lo adatta a se stesso, l’uomo di campagna o di montagna è abituato a convivere con la natura. Nel 2011 possiamo dire che questo conflitto c’è stato ma appartiene ormai al passato: la città ha vinto da tempo, la campagna rappresenta il passato, la tecnologia è il progresso, tra poco smetteremo anche di scrivere con la matita, e magari anche di cucinare. In questo contesto, bastano un insetto, un ragno o una lucertola per scatenare il panico; per tacere dei piccioni o dei topini di campagna. Rimane in alcuni il rimpianto per un mondo che non hanno in realtà mai conosciuto, e il desiderio di tornare ad una vita che hanno soltanto immaginato, ma che in realtà non conoscono affatto. Trasportato in campagna, o nella foresta vergine come accade nel film, l’uomo di città tenderà a trasformarla nell’ambiente in cui è cresciuto, con risultati all’inizio piacevoli ma poi inevitabilmente catastrofici: è quello che stiamo vivendo noi tutti, su tutto il pianeta, ed è uno dei temi principali di tutto il cinema di Weir.
Si tratta quindi di una materia solo apparentemente facile da governare, in realtà difficilissima da rendere al meglio. Forse Weir, e con lui Harrison Ford, si erano fatti trascinare dal grande successo di Witness (un altro film su un soggetto “pericoloso” ai fini degli incassi), ma sarebbe invece stato necessario per “Mosquito Coast” lo stesso lavoro in profondità affrontato con “L’ultima onda” o con “Picnic ad Hanging Rock”. Il tema, se lo si guarda bene, è lo stesso.
“Mosquito Coast” è stato girato cinque anni dopo “Fitzcarraldo” di Werner Herzog (che uscì nel 1981), e probabilmente ne fu molto influenzato (la macchina del ghiaccio appare anche all’inizio di Fitzcarraldo). Invece di portare nella foresta vergine la cultura, cioè l’opera lirica (come faceva Klaus Kinski nel film di Herzog), il protagonista di “Mosquito Coast” vi porta un enorme frigorifero, alimentato ad ammoniaca sotto forma di gas. L’ammoniaca gassosa, che in acqua diventa idrossido di ammonio, era fino agli anni ’60 il principale refrigerante in uso nei frigoriferi e nei condizionatori; il funzionamento si basa sul principio della compressione e decompressione dei gas, che sottrae calore all’ambiente (per esempio, mettendo la mano su un estintore ad anidride carbonica si rischia l’ustione per il freddo improvviso, ma anche una qualsiasi bomboletta spray fa sentire il freddo della condensazione ed espansione di un gas).
Weir era molto convinto di questo film, e anche Harrison Ford, ancora a distanza di molto tempo, ne parlava come di una grande esperienza: «...Adoro Peter Weir, e considero “Mosquito Coast” uno dei migliori film della mia carriera. Ho amato fin da subito il modo estremamente accurato con cui i personaggi usano le parole, la capacità dell’autore di regalarci il suo punto di vista. E’ un film shakespeariano. (...)» (Harrison Ford, intervista a Repubblica Venerdì 27.04.2006)
Il problema sta forse proprio in Harrison Ford, che non è credibile come eroe negativo. Si capisce bene che i suoi figli e sua moglie lo amino, per il resto ci si aspetta sempre che riconosca di aver sbagliato qualcosa: la sua è un’ottima prova di attore, ma – come ripeteva spesso Orson Welles – un attore deve saper fare i conti con il proprio aspetto fisico, e con le proprie caratteristiche. Welles sarebbe stato un magnifico Amleto, ma il suo fisico avrebbe fatto – giustamente – sembrare tutta la vicenda un po’ incredibile. Harrison Ford era riuscito benissimo in Witness proprio perché era sincero e sapeva riconoscere i suoi errori, e la sua faccia e il suo aspetto fisico erano perfette per quel ruolo; ma in “Mosquito Coast” il suo personaggio è completamente diverso.
E’ indubbiamente un film in cui tutti hanno creduto molto, e si vede; ed è anche un film di altissimo contenuto morale, ma da spettatore non mi sento di dire che sia anche un film riuscito.
In “Mosquito Coast” il racconto di quello che succede è affidato al figlio maggiore, e quindi si parla anche del rapporto di un figlio con il padre. Il figlio maggiore di Harrison Ford è nel film interpretato da River Phoenix, che è molto bravo e che avrebbe dimostrato anche in seguito grandi doti di attore; purtroppo era destinato ad avere vita breve.
Un altro tema tipico del cinema di Weir, ben presente anche in “Mosquito Coast”, è quello dell’intrusione: stavolta Weir adotta il punto di vista dell’intruso, un intruso un po’ ottuso, diverso dal Depardieu di “Green Card”, che invece cercava da subito di capire chi era la donna che si era trovato accanto. Harrison Ford è qui un intruso che non sa adattarsi, che non ascolta i consigli di chi ne sa più di lui, e che va incontro ad una catastrofe largamente annunciata (“tuo padre è un pericolo per sè e per voi, ragazzo...” aveva detto all’inizio il suo datore di lavoro al figlio maggiore).

Fondamentale nel film è anche il rapporto con la religione, impersonato dal missionario di Baltimora.
A questo proposito mi sembra interessante quello che scriveva Paolo Mereghetti a proposito di un altro film di Weir, “Fearless” :  ... «Fearless»  affronta il tema del senso di colpa che provano le persone sopravvissute, l'orribile ma vitale cinismo che spesso cattura i superstiti, ma soprattutto suggerisce che certe esperienze non si possono affrontare solo con le armi della razionalità o quelle della religiosità (come tentano di fare due dei sopravvissuti): per capire il «senso della vita» bisogna unire scetticismo e fede, intelligenza e intuizione, istinto e scienza. E non è un suggerimento scontato, ma sembrano in pochi quelli che vogliono capirlo. (p.m., Paolo Mereghetti, Corriere della Sera – Sette, aprile 1994) E’ un altro dei temi affrontati ma non ben risolti dal punto di vista narrativo: quasi tutto sembra ridursi a un conflitto personale fra Harrison Ford e il missionario. Quella tv che trasmette il sermone, però, è un bel colpo ad effetto.

Altri temi del film, già toccati con bravura e delicatezza da Weir nei film precedenti, qui sono purtroppo appena sfiorati: il tema del sesso come scoperta, per un adolescente (la figlia del missionario, evidentemente già molto esperta, fa delle avances al figlio maggiore, molto timido), e il tema del razzismo (all’inizio Harrison Ford rimprovera i figli per aver chiamato “scimmie” gli immigrati, ma alla fine del film, da sconfitto, il razzismo spunterà anche in lui).
C’è anche il timore dell’apocalisse e della fine del mondo: il protagonista dice ai figli che l’America è ormai distrutta, e che sopravviveranno solo quelli come loro, che sanno vivere nella Natura; e lo dice perché ormai se ne è convinto, quello che all’inizio era solo un punto di vista anche abbastanza sensato finisce poi nell’irrazionale e in un fanatismo molto simile a quello di molte sette religiose. All’inizio del film, nella sequenza in cui Harrison Ford va col figlio a fare acquisti in città, è presente un tema che negli anni ’80 era molto sentito ma di cui oggi non si parla più: il fatto che d’improvviso tutto fosse “made in Japan”. Ora il mondo è cambiato, il Giappone non è più una potenza economica e quei discorsi si fanno piuttosto sulla Cina, e magari sull’India o su Taiwan.
Helen Mirren interpreta la moglie del protagonista, ed è molto brava anche se un po’ sacrificata dal ruolo: per lei, come per molte attrici veramente grandi, i ruoli migliori sarebbero arrivati dopo i cinquant’anni, a smentire il luogo comune secondo il quale alle attrici dopo una certa età non vengono più offerti ruoli interessanti. Questi ruoli ci sono, ma sono ruoli per cui l’aspetto fisico non basta più, serve anche essere molto brave nella recitazione. Con Helen Mirren, e per fare solo pochi nomi, si potrebbero citare Katharine Hepburn, Alida Valli, Ingrid Bergman, e oggi Meryl Streep, Angela Lansbury, Virna Lisi...Tutte attrici che hanno lavorato, e molto, anche dopo i settant’anni.
Il film ha delle musiche belle ma non memorabili firmate da Maurice Jarre, collaboratore di Weir in molti dei suoi film; ed è stato girato nel Belize, a Baltimora (Maryland) per le scene in città, e in diverse località in Georgia (USA) per le scene di casa e di lavoro in USA.
In una lunga intervista che ho recuperato su internet, Weir parla (oltre che della sua passione per Carl Gustav Jung e per l’esploratore e navigatore Thor Heyerdahl) della sua infanzia e adolescenza: per motivi di lavoro suo padre cambiava spesso città, e dopo due o tre anni si ripartiva da capo, in un’altra città e in un altro ambiente. Quando si trasferirono nella Watson’s Bay, racconta Weir (che è nato nel 1944), per lui cominciò un periodo favoloso, perché bastava fare pochi passi per trovare l’ambiente intorno ancora allo stato naturale, incontaminato. E’ facile riconoscere l’ambiente di “Mosquito Coast” in questa descrizione: all’inizio dell’avventura i ragazzi, e anche le due bambine, sono ben contenti di ciò che trovano, ed è più che naturale che sia così.
Però Weir in quest’intervista aggiunge un altro dato importante: la fortuna di essere nati e cresciuti in un’epoca in cui non c’era ancora la televisione. E io aggiungerei: nemmeno i videogiochi, nemmeno i telefonini.
Sue Mathews: Where did you grow up?
Peter Weir: Sydney. We moved quite a bit until I was about twelve; my father was a real-estate agent and he would buy a house and for three or four years and then move us to another one. At one time we settled in Watson's Bay which move us into it was the beginning of a wonderful period. The settings are very exotic around there and I was fortunate enough to be brought up in the pre-television generation, so after school I’d be out in the streets. They'd be full of kids right through to dark; there would be balls bouncing and bits of things rolling down the street and neighbours chatting to each other and sitting outside, it was almost a village feeling. There was always a gang of kids: we would go over to the Glen and jump on trams as they went through, or explore caves that were supposedly Aboriginal, or go to the Gap which was nearby. There seemed to be a lot of danger, which I think adds so much to a child's life, the forbidden things that one shouldn't do or go near. When I was 12 we moved to Vaucluse. We were at the top of a little hill that led down to the park at Parsley Bay where there is a big suspension bridge. I was never out of the water, snorkling or spear fishing. Those years were linked with the water and the sea. I used to watch the ships going out, those huge liners going to Europe and from as early as I can remember I used to think that I’d like to be on one.
(Peter Weir, intervista trovata on line qualche anno fa, della quale ho perso il link)

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