sabato 2 aprile 2011

Il rito ( III )

IL RITO (Riten, 1967). Scritto e diretto da Ingmar Bergman. Fotografia: Sven Nykvist - Scenografia, costumi: Mago (Max Goldstein) Interpreti: Gunnar Björnstrand (Hans Winkelmann), Ingrid Thulin (Thea Winkelmann), Anders Ek (Sebastian Fisher), Erik Hell (giudice Abrahamsson), Ingmar Bergman (un prete). Durata: 72 minuti

“Il volto” e “Il rito”, girati a nove anni di distanza l’uno dall’altro, hanno molto in comune. In entrambi c’è una troupe girovaga di attori e illusionisti, forse con poteri magici, che vanno a toccare corde profonde, sconvolgendo la vita di chi investiga su di loro. Attori e maghi, sacerdoti un po’ cialtroni, miseri e mendicanti, ma verranno ricevuti dal Re.
Nel “Volto” Björnstrand è il razionalista scettico e sprezzante, nel “Rito” prende invece il posto che fu di Max von Sydow e diventa capocomico e mago, quasi sacerdote di un culto misterioso, sicuramente non cristiano. Ingrid Thulin resta al suo posto, ambigua e quasi androgina come nel “Volto”, ma più dura e più anziana; non ci sono più la vecchia strega, la giovanetta, la corte e tutto il contorno, l’azione è ridotta all’essenziale così come i personaggi, però rimane il capo della polizia, trasformato in ispettore e inquisitore. Tutti gli altri personaggi del “Volto” nel “Rito” vengono riassunti in uno solo, il terzo attore della compagnia.
Lo spettacolo finale, inquisito e poi proibito per oscenità, ha la stessa funzione della macchina di “Nella colonia penale” di Kafka. E’ davvero uno spettacolo osceno, forse anche blasfemo: di sicuro è un rito precristiano quello che mostra, sotterraneo, panico-dionisiaco, un rito che prevede spargimento abbondante di sangue, il sacerdote che abbatte la vittima sull’altare; siamo a prima di Abramo e di Isacco, e forse il nome del giudice (“figlio di Abramo”) non è casuale. In “Immagini” Bergman fa un riferimento preciso alle “Baccanti” di Euripide, e dunque sarebbe il caso di andare a dare un’occhiata non solo alle Baccanti ma anche a tutto il mito di Orfeo.
Abrahamsson (nel finale, poco prima di assistere al “Rito”): Ho sempre avuto paura. I miei primi ricordi sono di terrore. Come posso io, in un momento, darvi la chiave di me stesso, così che possiate capirmi... così che possiate capire tutto quell’orribile... Ma che sto dicendo, devo calmarmi. Sono vittima di stupide fobie.
(a questo punto, dice di iniziare lo spettacolo).
E’ un film magnifico sul piano stilistico, che se interpretato in maniera superficiale rischia di ridursi soltanto ad atto d’accusa contro la censura. E’ in realtà un film subliminale: ed è inconcepibile pensarlo soltanto come sceneggiatura, cioè solo come parola. L’immagine è l’essenza di questo film, e non solo il volto, ma il corpo, l’ambiente, la luce. Stavolta il lavoro di scavo sui volti fatto da Nykvyst e da Bergman è riservato principalmente a due degli attori maschi, che non sono né belli né giovani nè simpatici. Erik Hell, il giudice inquisitore, è un curioso intreccio tra Dirk Bogarde, Vittorio Caprioli e Giulio Andreotti. Il vero protagonista è lui, l’ispettore Abrahamsson: al di là delle apparenze iniziali il finale è molto chiaro in proposito.
Anders Ek, che ha recitato molto con Bergman ma che qui è all’unica parte da protagonista, è duro e ambiguo, e sgradevole, come è giusto per la parte che gli è richiesta. Ha inoltre qualcosa di vagamente infernale, non so se da dannato o da diavolo, sia nello sguardo che nei movimenti. Björnstrand è magnifico, forse il suo migliore film (forse perché qui comincia ad essere davvero vecchio?) e nel finale porta magnificamente la maschera, quasi come se fosse nato come attore del teatro greco.
Ingird Thulin è molto cambiata rispetto ai primi film con Bergman, è sempre bella ma il suo volto è come indurito; sembra quasi Harriet Andersson, ed è magnifica ma leggermente sotto a Björnstrand.
Un film da rivedere, da pensare; impressionante e affascinante, orrido e bellissimo, mai noioso.
Recitato benissimo, fotografato in maniera superba da Nykvist. Non c’è quasi musica, se non come percussioni per lo spettacolo.
Qualche altro appunto, come curiosità: 1) Ingrid Thulin svela di chiamarsi non Thea ma Claudia Monteverdi (!). 2) Il nome del personaggio di Anders Ek si scrive Fisher, all'inglese: il perché viene spiegato nel corso del film.  3) Nel colloquio che avviene poco prima della rappresentazione, Björnstrand suggerisce a Ek il nome di un’insegnante di strip, Sarah Fraenkel. Mi sono segnato il nome e sono andato a cercarla su Google, ma ho trovato solo rimandi al mito del Golem, pare che una Sarah Fraenkel sia vissuta nel ‘700, a Praga o in Germania; però può ben darsi che Bergman abbia conosciuto e frequentato qualche sua omonima e volesse farle un po’ di pubblicità.
Ingmar Bergman, da “Immagini”:
(...) Questo è il progetto iniziale del Rito. Due omosessuali, più o meno svestiti, stanno in piedi presso una finestra, senza pensare, o forse l'hanno pensato, che si trovano presso una finestra. Fuori c'è un parco e una strada, e qualcuno li ha visti e li ha denunciati. Loro hanno fatto un gioco. Markus, che è scultore, ha modellato un'orrenda maschera che raffigura la suocera dell'uomo senza nome, e così giocano all'improvviso all'antico rito dell'elevazione. Il progetto iniziale è quindi più rozzo, più comprensibile e molto più sgradevole di come divenne il film finito. (...)
(...) Il mio primo pensiero fu di girare “Il rito” parallelamente a “La vergogna”. “La vergogna” era quasi totalmente girato in esterni, e noi avevamo costruito per le riprese una casa che poteva anche essere usata come studio. Nei giorni piovosi potevamo stare in casa e giocare con la cinepresa. E per questo che ho chiamato Il rito “un esercizio per cinepresa e quattro attori”. Scrissi Il rito velocemente e senza pretese. Per diversi motivi non fu filmato come in un primo tempo avevo pensato, tuttavia non potevo lasciarlo cadere. Riuscii a interessare Ingrid Thulin, Gunnar Björnstrand, Erik Hell e Anders Ek per una rapida lavorazione. Avremmo dovuto far le prove per una settimana e filmare in nove giorni. (...)
(...) Il Giudice fa appello ai tre artisti perché lo guardino come uomo. Ma è troppo tardi. Ha commesso violenza carnale e deve morire. È un condannato a morte che cerca di parlare in propria difesa al cadere della mannaia. (...)
(Ingmar Bergman da “Immagini”, ed. Garzanti, 1992)

2 commenti:

Marisa ha detto...

Certo che l'inconscio di Bergman non scherzava!
L'unico aiuto qui mi viene da Jung che parlava della personalità in termini di quaternio, e qui i quattro protagonisti vanno proprio presi, nell'indissolubile intreccio che li lega, come componenti e aspetti della stessa persona: una specie di drammatizzazione intrapsichica che porta a un tentativo di autoanalisi che si risolve con la distruzione-eliminazione di una parte ( quella invidiosa e repressa del giudice) e la differenziazione delle altre (nevrotiche, ma creative), unico modo per uscire da un conflitto sempre più soffocante e perverso.

La chiave di lettura, come spesso nei film di Bergman, è rappresentata dal titolo. Il rito rappresenta appunto una drammatizzazione per elaborare e risolvere un conflitto e, non a caso, nella tragedia greca il teatro è il tempio stesso di Dioniso -unico dio che non ha altri templi- e la rappresentazione tragica era il vero rito di espiazione e purificazione. Il termine stesso di tragedia viene da Tragos, che era il caprone immolato
in onore di Dioniso.

Giuliano ha detto...

Ti dirò che questo è un film che mi ha fatto davvero paura, soprattutto nel finale: lo sgozzamento simulato, attraverso l'otre di vino, rimanda diritto a Isacco, alle are sacrificali, agli aztechi...Che Bergman sia andato a pescare in queste zone (zone rimosse, ma che fanno parte del nostro passato e della nostra memoria collettiva) è davvero incredibile, ma va ricordato che "Il rito" viene subito dopo altri film molto difficili e "urtanti", come La vergogna, Passione, L'ora del lupo, Persona...
Il tuo rimando a Jung è senz'altro fondamentale, non so se io sarei in grado di portarlo avanti ma certamente avrei dovuto almeno accennare alle associazioni con il numero tre, il numero quattro, eccetera.
Adesso che ci penso, ne deve aver scritto qualcosa (qualcosa di bello e di interessante) Umberto Eco, parlando dei tre moschettieri e di altre cose, uno dei suoi saggi migliori.
Ma qui Bergman mette in scena direttamente Dioniso...