mercoledì 20 luglio 2011

Un mondo di marionette ( I )

UN MONDO DI MARIONETTE (1979/80) Regia, sceneggiatura: Ingmar Bergman Titolo originale svedese: Ur marionetternas liv (t.l. Dalla vita delle marionette). Titolo originale tedesco: Aus dem leben der Marionetten. Produzione: Personafilm (München) - Distribuzione: Sandrews Produttori: Horst Wendlandt, Ingmar Bergman - Fotografia: Sven Nykvist (bianco e nero/colori), Musiche: Rolf Wilhelm - Scenografia: Rolf Zehetbauer - Montaggio: Petra von Oelffen - Prima: 24/1/1981 Grand - Con: Robert Aztorn (Peter Egerman), Christine Buchegger (Katarina Egerman, sua moglie), Martin Benrath (Mogens Jensen, lo psicoanalista), Rita Russek (Katarina Krafft, la prostituta), Lola Muethel (Cordelia Egerman, madre di Peter), Walter Schmidinger (Tim, lo stilista omosessuale), Heinz Bennent (Arthur Brenner), Ruth Olafs (l'infermiera), Karl Heinz Pelser (l'ufficiale che dirige l'interrogatorio), Gaby Dohm (la segretaria), Toni Berger (l'usciere). Durata: 104 minuti

« Gli uomini deboli seguono vie stravaganti.»
(da “Un mondo di marionette” di Ingmar Bergman, minuto 56 )
Nel 1990, dopo aver visto per la prima volta “Un mondo di marionette”, ne scrivevo così: «...un film notevole, che si apparenta a “Il rito”. Purtroppo anche qui ci sono le gravi cadute di tono (verbosità) dell’ultimo Bergman: ma la rigorosità della narrazione non scade mai, contrariamente ad altri film (vedi Sonata d’autunno, L’uovo del serpente...) (ottobre 1990) »
Un giudizio che mi sento di confermare, aggiungendo che si tratta di un film molto sgradevole e molto lontano dai miei interessi personali, e che quindi (adesso come vent’anni fa) ho fatto una gran fatica ad arrivare fino in fondo. Ed è difficile capire che si tratta di un film di Ingmar Bergman, soprattutto all’inizio sembra tutt’altra cosa, magari un telefilm tipo quelli tedeschi (Derrick, Wolf, Un caso per due...) che sono sempre ben fatti e ben girati, o magari – andando più avanti – il film di un imitatore di Bergman. Insomma, non avevo voglia di rivederlo e l’ho ripescato solo per completezza, perché sto guardando tutti i film di Bergman e anche “Dalla vita delle marionette” (il titolo originale si traduce così) merita il suo posto. Oltretutto, Bergman dice che è molto affezionato a questo film e che lo riconosce come suo, anche se non perfettamente riuscito, molto più di altri suoi film magari più belli (la citazione completa è in fondo al post). Non è comunque il solito film di Bergman di quel periodo “in esilio”, gli anni in cui Bergman andò a lavorare fuori dalla Svezia a causa soprattutto dei suoi problemi con gli accertamenti del fisco, poi risoltisi felicemente. Insomma, “Un mondo di marionette” non è “L’adultera” né “L’uovo del serpente”, e nel complesso è migliore di quanto io non ricordassi.
- (...) Noi accettiamo le regole del gioco senza saper giocare come dovremmo, e subiamo l’imbroglio. Sai cosa mi spaventa più di ogni altra cosa? Quando non posso andare a lavorare, quando non posso leggere il giornale, quando non posso mangiare a orari regolari... Soffrire d’insonnia, soffrir di stitichezza, avere la macchina in avaria, essere ammalato, avere mal di denti... So che ogni disordine mette in pericolo il mio sistema di sicurezza che ho con tanta cura escogitato.
- Se è come dici, dovresti fare a meno di bere.
- Devo prendere il coraggio di mettere fuori uso il mio sistema.
- Cosa ci guadagni a questo modo?
- Mi faccio saltare in aria a brandelli (...)
(dialogo tra Peter e la moglie Katherine, a metà film)
“Un mondo di marionette” è la storia di un uomo normale e benestante che ha però delle fantasie omicide, anche nei riguardi di persone a lui care, e che finirà per commettere veramente un omicidio. L’omicidio lo vediamo anzi fin da subito, in flashback, nelle sequenze iniziali: e a colori, mentre il resto del film è quasi tutto in bianco e nero. Al centro del film c’è subito uno psicoanalista, che raccoglie la testimonianza di questo caso clinico molto particolare e che è oltretutto molto amico sia dell’omicida che della moglie di lui.
Non è casuale che al centro del film ci sia questo personaggio di psicoanalista, perché Bergman sembra fare in questo film una sua completa autoanalisi: nei suoi libri autobiografici, usciti da noi una decina d’anni dopo questo film, il regista svedese è infatti molto esplicito su queste fantasie e sui suoi ricordi infantili e adolescenziali.
Di questo aspetto della personalità di Bergman si è occupata una famosa psicoanalista infantile in un libro molto leggibile ma per specialisti, “Il dramma del bambino dotato e la ricerca del vero sè” di Alice Miller, editore Bollati Boringhieri. E’ un libro che non avrei mai letto se una gentilissima signora, che si occupa a livello professionale di questi temi, non me lo avesse messo tra le mani qualche anno fa. Sono temi delicati, come tutti quelli connessi alla psicanalisi (soprattutto a quella infantile), e mi disturba molto quando, soprattutto in tv, se ne parla con grande leggerezza; e quindi ho un po’ di titubanza nel portare qui questa pagina; lo faccio solo perché mi sembra che siamo tra persone mature e responsabili, e che quindi eventuali commenti saranno ben ponderati. C’è comunque una pagina dedicata a Bergman, e la trascrivo perché è interessante; aggiungo solo che Bergman stesso, in interviste recenti, ha raccontato del rapporto con suo padre ormai anziano, e di come tutto si sia appianato nel corso della loro vita. Il più delle volte ragioniamo sulle cose del mondo guardando alla nostra vita di persone normali, ed è difficile rendersi conto di quanto difficile possa essere stata la vita degli altri, anche delle persone famose e stimate (il padre di Ingmar era, per l’appunto, un rispettabilissimo pastore protestante; e di certo era sicuro di agire nell’interesse dei figli, per il loro bene). 
«(...) Molto diverso appare l'atteggiamento di Ingmar Bergman, che in una trasmissione televisiva ha parlato in modo molto consapevole della sua infanzia, con maggiore comprensione (sia pure solo intellettuale) di certi nessi. L'infanzia di Bergman era stata, secondo le sue parole, una storia di umiliazioni: l'umiliazione era stata il mezzo pedagogico fondamentale. Quando si bagnava i calzoncini, per esempio, doveva portare per tutto il giorno un vestito rosso, in modo che tutti lo potessero vedere ed egli si vergognasse di fronte a tutti. Bergman era il figlio minore di un pastore protestante. In quella intervista rievocava una scena che doveva essersi ripetuta spesso nella sua infanzia: il fratello maggiore viene frustato sulla schiena dal padre, mentre la madre tampona col cotone il sangue delle ferite e lui sta a guardare, seduto in disparte. Bergman descrive questa scena senza scomporsi, con un tono assai freddo. È facile immaginarselo bambino mentre se ne sta seduto tranquillo a guardare; non sarà certo fuggito, non avrà chiuso gli occhi, né urlato. Si ha l'impressione che questa scena, certo realmente accaduta, sia però un ricordo di copertura per ciò che è capitato proprio a lui. E’ infatti estremamente improbabile che il padre picchiasse solo suo fratello.
Molti pazienti sono da tempo convinti che solo i loro fratelli abbiano subìto delle umiliazioni. Ci vuole lo smascheramento operato dalla terapia, perché riescano a ricordare e a vivere con sentimenti di collera e di impotenza, nonché di rabbia e di sdegno, quanto si fossero sentiti essi stessi umiliati e abbandonati, quando erano stati riempiti di botte dal loro amato padre. Nell'accostarsi alla sua sofferenza, comunque, Bergman è riuscito a trovare un'alternativa allo spostamento e alla negazione: girando dei film, ha delegato i suoi spettatori a vivere quei sentimenti che aveva respinto. Potremmo immaginare che noi spettatori riceviamo il compito di percepire i sentimenti che il figlio di quel padre non aveva potuto vivere apertamente, ma che ha sempre custodito nell'animo. Seduti davanti allo schermo, come un tempo il ragazzino dinanzi alla scena descritta in precedenza, siamo messi a confronto con la crudeltà che “nostro fratello” patisce e non ci sentiamo capaci o disposti a recepire tanta brutalità con sentimenti sinceri. La respingiamo. Quando poi Bergman si rammarica di non aver capito prima del 1945 che cos'era il nazismo, malgrado i suoi frequenti viaggi in Germania nel periodo hitleriano, questa mi pare una conseguenza di quell'infanzia. La crudeltà aveva per lui un'aria familiare, l'aria che aveva respirato sin da piccolo. Come avrebbe potuto balzargli agli occhi? (...)»
( Alice Miller “Il dramma del bambino dotato e la ricerca del vero sè”, editore Bollati Boringhieri., pag.86)
L’infanzia di Bergman è descritta da Bergman stesso nei suoi libri, come “Lanterna magica”, ed. Garzanti, dove l’episodio descritto è da pagina 12 in avanti. Si tratta del resto di una materia che gli appassionati di Bergman ben conoscono: il personaggio del vescovo Vergerus in “Fanny e Alexander” ne è una descrizione perfetta. E’ la prima volta, con “Un mondo di marionette” che Bergman parla di queste cose in modo così esplicito: nei film precedenti si coglievano solo accenni velati, o nascosti dietro un’invenzione artistica. “L’ora del lupo” e “Il rito” erano comunque già molto espliciti in proposito. Ed è difficile non pensare che, in “Un mondo di marionette”, quando l’omosessuale Tim si guarda allo specchio e ragiona sul passare del tempo sia probabilmente Bergman stesso che ragiona su di sè, usando questo mascheramento; ed è a mia memoria l’unico omosessuale di tutti i film di Bergman, certamente l’unico che ha tutto questo spazio, un lungo monologo proprio al centro del film seguito dall’altrettanto lunga scena con il poliziotto che lo interroga. Il personaggio, interpretato dall’attore Walter Schmidinger, è quello di uno stilista che lavora con la moglie del protagonista del film, che si occupa di alta moda.
Anche la descrizione che la madre (“una famosa attrice”) fa del protagonista la si può trovare identica in “Lanterna magica”, quando Bergman descrive se stesso da bambino: e non è dunque azzardato pensare che in queste sequenze sia stata messa in scena la madre stessa di Bergman.
Altri miei appunti sparsi: 1) molto brutte e poco originali le musiche, roba da locale di strip, firmate del tedesco Rolf Wilhelm. 2) l’attore che interpreta lo psicoanalista somiglia moltissimo all’onorevole berlusconiano Paniz, in questi mesi onnipresente sugli schermi tv, e diventa quindi molto difficile oggi prenderlo sul serio, sia come medico che come amante della moglie del protagonista. 3) Katharina è il nome della moglie ma anche della prostituta che verrà uccisa 4) attrice magnifica Christine Buchegger, con un volto intenso e interessante; a lei Nykvyst dedica giustamente molti primissimi piani 5) nella seconda metà del film, un lungo sogno in forma di lettera non spedita, una lunga sequenza onirica dove Peter esplica la fantasia di tagliare la gola alla moglie: non una brutta sequenza, ma è proprio qui che è più forte l’impressione di trovarsi di fronte a un imitatore di Bergman, e non a Bergman stesso. 6) in ogni caso, un film troppo parlato; e la mia completa estraneità a questi temi e a questi ambienti me lo ha reso molto pesante. 7) nel finale, Peter ha con sè un vecchio e logoro orso di pezza, come accadrà per il bambino di “Fanny e Alexander” 8) i dialoghi con l’investigatore sono molto simili a quelli del “Rito”, ma qui l’investigatore è gentilissimo anche davanti allo stilista omosessuale, che è molto maleducato e inutilmente ironico 9) si parla apertamente di sodomia e di omosessualità, e anche molti altri particolari dei dialoghi sono inutilmente espliciti sul piano sessuale: un difetto che fin qui Bergman era riuscito ad evitare, che tornerà anche in “L’infedele”.
10) Sulla copertina di “Immagini” c’è proprio una foto presa sul set di “Un mondo di marionette”, dato che non si tratta di una foto immediatamente leggibile penso che il fatto non sia casuale, e che Bergman stesso abbia dato indicazioni in proposito: si tratta di un’immagine in cui Bergman viene riflesso in uno specchio.
11) In definitiva, un film sgradevolissimo, come molte pagine dei suoi libri autobiografici; ma comunque interessante, ben fatto e ben recitato.

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