domenica 18 settembre 2011

Ken Loach ( IV )

Nell’anno 2000, uno strano incontro: un dialogo fra Ken Loach e Susanna Tamaro, per un incontro all’Istituto di Cultura Italiana di Londra, moderato da Enrico Palandri. Il testo integrale si trova sul sito della Tamaro, io lo avevo letto su La Repubblica del 22 dicembre 2000; ne riporto qui qualche estratto, con l’attenzione ovviamente rivolta a quello che dice Ken Loach.
Ken Loach - Prima di tutto grazie per avermi invitato e per parlare in inglese! Mi pare che tu ti sia riferito a me come a un autore, cosa che in realtà non sono; comunque sono abbastanza fortunato da poter lavorare con ottimi autori. A volte i registi si prendono meriti che non hanno, mentre io sento di dover riconoscere il loro ruolo. Credo però che la domanda sia molto interessante: da una parte direi che si cerca di fare film sulla classe operaia, ma la classe operaia non è certo al margine, è anzi il nucleo stesso della società. Quindi da questo punto di vista non mi sento assolutamente di fare film su persone emarginate. Forse su persone che hanno difficoltà, magari escluse dal mainstream culturale, ma senz'altro al centro della società. Mi pare sia una distinzione importante perché chiarisce qualcosa sulla classe dominante, quella che prende le decisioni, perché ci dice qualcosa sul loro modo di vedere il mondo e anche sul fatto che oggi la vita culturale riflette il mondo per come lo vedono loro, mentre la vasta maggioranza delle persone è diversa, con i suoi drammi, i suoi divertimenti, la sua vita, che spesso non ha spazio per essere rappresentata. Perciò credo che in qualche modo noi cerchiamo di dare voce a persone che non hanno la possibilità di essere sentite, ma non credo siano emarginate.
Susanna Tamaro - Per quel che mi riguarda, come scrittrice la cosa che più m'interessa è raccontare le persone che sono in un momento di fragilità; i miei libri parlano quasi esclusivamente di anziani, adolescenti con problemi, di bambini, che non so se siano marginali, ma che sicuramente non fanno parte della vita attiva del mondo che produce. Dalla loro posizione i miei soggetti possono permettersi di riflettere sulla vita e sul suo senso, sempre da un punto di vista di povertà interiore, di esclusione perché penso che in una persona in questa posizione ci sia più possibilità di riflessione sulla società.
EP - Siete stati entrambi esposti nella vostra carriera ad alterne fortune. Cosa vuol dire per voi essere dentro o fuori questo mainstream culturale?
KL - Personalmente penso non si dovrebbe mai essere all'interno del mainstream culturale. Non so se sia lo stesso in Italia, ma la House of Lords è piena di persone ritenute scrittori o registi e completamente assorbite nell'establishment, e una volta che si è lì si assume il loro punto di vista, si smette di fare domande, mentre per me essere scrittore o regista vuol dire essere sovversivo, vuol dire poter fare le domande che loro non vogliono che si facciano. È ironico dire questo a Belgrave Square, perché non si potrebbe essere più vicini all'establishment, ma è nostra responsabilità continuare a mettere il mondo sotto sopra e a fare domande, paragoni e connessioni che loro non vogliono vengano fatti. Perciò penso sia importante per me rimanere al di fuori del mainstream culturale, perché nel momento in cui si accettano gli onori dello stato ci si compromette, si viene assorbiti e fagocitati dallo stato e dal suo punto di vista.
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EP - Pensate che sia più o meno difficile per un artista opporsi al mondo che ritrae? Vi sentite in una posizione privilegiata per giudicare questo mondo rispetto alle persone che raffigurate?
KL - No, chiunque faccia un film si trova in una posizione molto diversa da quella della gente che cerca di ritrarre. Credo si debba cercare di essere un buon giornalista, con buone orecchie e buoni occhi, capace di osservare, di ascoltare, di cercare di mettere il soggetto al centro del proprio lavoro e renderlo la cosa più importante. Spesso in un film, a seconda del genere o dello stile, l'argomento si ritrova relegato in fondo alla scena, e questo è un peccato perché è il soggetto che deve essere davvero discusso e analizzato prima di essere presentato al pubblico. Bizzarramente, più che i critici, è il pubblico a preoccuparsi dell'argomento del film, i critici parlano di tutto il resto ma mai del contenuto. Qualche anno fa ho fatto un film sull'Irlanda e sul comportamento inglese nei confronti della questione irlandese e a una visione del film è stato impossibile riuscire a parlare della questione centrale del film. L'argomento centrale del film è spesso ignorato, si parla di trucchi letterari, di stili di regia, ma il contenuto dell'opera viene sorvolato. È lo stesso in Italia?
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KL - Se si fanno piccoli film inglesi questo non è davvero un problema. Se facessi film a grande budget, all'americana, la domanda avrebbe più senso, ma non è esattamente un problema quando si fanno film a piccolo budget per Channel 4. Comunque credo sia anche una questione personale, bisogna essere consapevoli del fatto di lavorare con delle persone, tener conto della loro vulnerabilità e del fatto che sono sempre più importanti dei film. Abbiamo appena finito di girare un film su ferrovieri, e molte delle persone presenti nel film sono veri ferrovieri. La cosa più importante è stata per me far sentire che erano loro gli esperti, erano loro che ne sapevano più di noi. Non si può pensare di andare da alcune persone a dare ordini su come debbano recitare, su dove debbano mettersi. Bisogna diventare amici delle persone che lavorano in un film, e in questo modo tutto può diventare facile. In un certo senso fare un film non è la cosa più importante di tutte, il modo in cui viene presentata la gente che lavora nel cinema, tutta l'importanza che viene loro data è davvero esagerata, immeritata da molti punti di vista. Bisognerebbe evitare di credere alla pubblicità che circonda il mondo del cinema e mantenere un'umiltà di fondo che ti permetta di evitare molti problemi e molte incomprensioni.
EP - La cosa importante è dunque la vita stessa, la realtà?
KL - Sì, penso che questo dovrebbe influenzare tutto il proprio modo di lavorare; certo, immagino sia diverso per uno scrittore che non deve tener conto di altre trenta o quaranta persone che lavorano con lui, ma penso che per noi sia importante conservare al minimo l'aspetto tecnico del fare film, bisogna avere chiara l'idea che si sta lavorando su una realtà da riprodurre, e questo è l'obiettivo principale.
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KL - La cosa peggiore nell'essere un regista, e invidio gli scrittori per non doverlo fare, è alzarsi alle quattro del mattino per filmare un'alba, o lavorare di notte, davvero si perde la voglia di vivere filmando alle due di notte. Mi piacerebbe diventare uno scrittore per evitare quell'aspetto del mio lavoro. Penso che la cosa migliore del fare cinema sia invece collaborare con un gruppo, ed è per questo che ammiro gli scrittori che sono in grado di lavorare con la sola compagnia di un foglio di carta. La cosa più bella del fare film è la collaborazione, lanciare un'idea e poterne discutere, lavorare con un attore e vederlo diventare il personaggio, osservare una scena trasformarsi sotto i propri occhi in qualcosa che non si era pensato da soli. Posso raccontare un breve aneddoto in proposito? Qualche anno fa ho girato un film sulla guerra civile spagnola, "Land and Freedom"; c'è una scena nel film in cui la milizia repubblicana marxista si trova costretta a lasciare le armi a causa dell'arrivo delle truppe staliniste. Il modo in cui lavoriamo di solito consiste nel non dare agli attori l'intera sceneggiatura, ma lasciare piuttosto che la storia si svolga sotto i loro occhi. Quando abbiamo girato quella scena, la milizia aveva appena finito di combattere e si stava riposando su un prato, e le persone che erano lì per imporre il disarmo arrivano e ordinano loro di abbandonare le armi. Nella scena, la milizia pensa all'inizio che questi soldati, meglio equipaggiati di loro, siano arrivati come rinforzo, perciò li accolgono con gioia. Mentre la scena va avanti, però, questi nuovi soldati fanno capire le loro vere intenzioni, addirittura arrivano a minacciare gli altri soldati per farsi consegnare le armi. Nella sceneggiatura c'era a questo punto un dialogo fra le due fazioni, ma quando abbiamo girato la scena, i soldati della milizia, nel momento in cui vengono minacciati dall'esercito regolare, sono scappati e si sono nascosti. Ricordo che avevo la cinepresa puntata sul campo, e di colpo non c'era più nessuno in scena, si erano tutti nascosti fra i cespugli e non avevamo potuto girare nulla. Ma gli attori ci avevano fatto capire che era quella la vera reazione di soldati che si trovano di colpo minacciati da chi credevano essere loro amico. Abbiamo così riscritto la scena in maniera diversa. Penso sia molto utile poter utilizzare le reazioni degli attori sul set. Quando abbiamo scritto e poi letto quella scena, tutto sembrava funzionare alla perfezione, ma ci sbagliavamo, quella non era la realtà. Lavorare con questo tipo di emozioni immediate è in un certo senso un'arma terribile, affascinante e inafferrabile, essere in grado di usare l'istinto dell'attore ha un grande valore, credo che questo mi mancherebbe dovendomi da scrittore confrontare solo con un foglio di carta.
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KL - Penso che possa essere un problema se i film sono dominati dalla trama; quando questo accade, si tende a ignorare il punto di vista dei personaggi, quel che loro farebbero, e questo è il problema del cinema commerciale, che non ha riguardo per le sfumature del comportamento umano in certe situazioni.
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EP - Vorrei tornare indietro a quello che si diceva prima sul mainstream e sulle realtà invece marginali. Entrambi avete spesso scelto di ambientare le vostre storie al di fuori di grandi centri, mi chiedevo che tipo di vantaggio avesse dato questa scelta al vostro lavoro.
KL - Personalmente non la vedo proprio così, quel che m'interessa sono le implicazioni della storia, che sono più importanti della trama generale. Se le implicazioni personali riescono a guadagnare l'importanza che spetta loro allora tutto il resto, compresa l'ambientazione, passa un po' in secondo piano. Poi trovo sia importante fare film su persone che ti piacciono: può suonare stupido, ma fare un film diventa una sorta di viaggio sentimentale, mentre riuscire a farne uno su qualcuno che non ti piace credo sia un compito estremamente difficile. Un'altra cosa che per me è molto importante è lavorare con qualcuno che parla la propria lingua, con questo intendo dire che, ad esempio, non trovo intrigante pensare di fare un film su gente ricca perché non la sento parlare la mia lingua, parlano male, non per quanto riguarda la grammatica, ma parlano in modo piuttosto arido. Bisogna scendere in una miniera, andare fra gli operai, su un molo, dove la lingua è divertente, piena di metafore, di immagini, trovo che quello sia importante. L'anno scorso abbiamo fatto un film a Los Angeles, "Bread and Roses", che è il cuore dell'industria cinematografica, ma è un posto davvero terribile, cercate di non andarci, se potete! Abbiamo fatto questa storia sui domestici messicani che lavorano in America e che sono così umani, gentili e in qualche modo trascendevano il luogo dove ci trovavamo, non sembrava di essere in questa metropoli così importante per il cinema. Perciò non credo si tratti semplicemente di una questione di geografia, quanto, e voglio proprio dirlo, di classe sociale. Non potevo resistere, dovevo dirlo!
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Pubblico (1) (a KL) - Volevo sapere cosa pensa del fatto che ormai la retorica liberista che crea marginalità sia propugnata in Europa per lo più da governi di sinistra.
KL - Credo sia vero, e che se ci si guarda indietro questo sia stato purtroppo il corso della politica europea negli ultimi vent'anni almeno. Pensiamo al caso della Thatcher e al suo progetto di ristrutturazione della società, che ha causato disoccupazione di massa e grandi difficoltà di sviluppo. I sindacati sono stati emarginati e così il Labour Party, tutto questo per fare dell'Inghilterra, e lo dico fra virgolette, un "Paese progredito" e tutti gli altri Paesi europei hanno seguito lo stesso trend, che era poi quello dell'America reaganiana. Sembrava fosse sexy a un certo punto essere di destra: ricordo una pubblicità su Channel 4 all'inizio degli anni Ottanta, in cui si cercavano dei produttori di destra.
Pubblico (2) - Io sono venuto qui, e tutto quello che ho sentito sono chiacchiere inutili. Jerry Springer è un eroe per la mia generazione perché sa far vedere alla gente quanto è stupida senza bisogno di essere così paternalistico e arrogante. Vogliamo risposte e non chiacchiere. Tutti i tuoi film fanno la stessa domanda "perché la società è fallita?" Secondo me quella è la domanda sbagliata, dovresti chiederti perché tu, e la tua generazione, avete fallito. Siamo stufi ormai.
KL - Non credo sia un problema di generazioni che falliscono, la questione è più generale, la società ha fallito, magari può essere stata colpa della mia generazione, ma non credo davvero sia solo quello il problema. Mi dispiace vedere che tu non abbia imparato nulla da questi fallimenti e che continui a vivere con le loro conseguenze. Leggendo i libri di Susanna mi è sembrato di vedere delle persone che cercano di combattere contro i propri errori, per non farli di nuovo, e che cercano di imparare qualcosa di importante dai propri sbagli. Mi pare che i suoi libri si occupino molto di questi problemi. Non riuscire a venire a patti con i propri errori, non riuscire ad ammetterli, porta solo molte altre discussioni e, probabilmente, ulteriori errori.
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Pubblico (6) - Come riesce a difendere il suo essere radicale e incisivo da quella parte di società, progressista e radicale, che, pur non avendo alcun interesse per il contenuto, segue molto volentieri i suoi film così da potersi sentire "rivoluzionaria"?
KL - Penso che la prima responsabilità di un autore sia verso le persone su cui decide di girare un film o fare una ricerca; in questo senso non c'è spazio per un atteggiamento auto-adulatorio o per altre cose del genere. Qualche anno fa abbiamo fatto un film, "My Name is Joe", a Glasgow e abbiamo girato in un sobborgo della città, dove le condizioni di vita sono molto dure; il nostro primo interesse era fare in modo che la gente del posto potesse riconoscersi nel nostro lavoro - quella, come ho già detto, è l'unica cosa davvero importante. Tutto il resto è propaganda. Credo che la condizione delle persone sia così bisognosa di attenzione che non c'è niente altro da tenere in considerazione. Riuscire a guardarli negli occhi dopo aver finito è la più grande soddisfazione professionale. E poi c'è sempre un altro lavoro, qualcos'altro a cui prestare la propria attenzione.
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KL - Penso che, parlando di comunismo, il problema ora sia quello di avere davanti agli occhi quasi novant'anni di fallimenti, diciamo dall'inizio degli anni Venti. Trovo però che si abusi del termine e che si indichi come comunismo qualcosa che forse comunismo non è mai stato. Se la allontaniamo definendola semplicemente come un'utopia, sarebbe troppo facile per le persone che guidano le grandi corporazioni. Se decidessimo di abbandonare qualsiasi forma di resistenza, sarebbe come commettere un suicidio collettivo. Per quel che mi riguarda, l'unica alternativa alla resa è il potere collettivo, questa è l'unica alternativa al potere delle corporazioni. E non credo che mi arrenderò tanto facilmente.

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