giovedì 15 settembre 2011

Riflessi in un occhio d'oro

REFLECTIONS IN A GOLDEN EYE (RIFLESSI IN UN OCCHIO D'ORO, 1967) Regia: John Huston; sceneggiatura: Chapman Mortimer, Gladys Hill (dal romanzo di Carson McCullers); fotografia: Aldo Tonti e poi Oswald Morris; musica: Toshiro Mayuzumi; interpreti: Elizabeth Taylor (Leonora Penderton), Marlon Brando (maggiore Weldon Penderton), Brian Keith (tenente colonnello Morris Langdon), Julie Harris (Alison, moglie di Langdon), Robert Forster (soldato Williams), Zorro David (Anacleto), Gordon Mitchell (sergente stalliere), Irvin Dugan (capitano Weinbeck), Fay Sparks (Susie). Durata: 109 minuti

“Riflessi in un occhio d’oro” è uno dei film più duri e pesanti di Huston, eppure ha un notevole fascino, colpisce molto e non si dimentica. E’ tratto da un racconto di Carson McCullers, scrittrice e amica personale di Huston. E’ un film sulla maternità negata, su un mondo sterile e incapace di generare: un mondo al maschile, per l’appunto. Anche l’unica donna interessata al sesso (la moglie del maggiore, interpretata da Liz Taylor) fa solo del sesso sterile, per puro passatempo. Lo fa oltretutto con un collega del marito (lo interpreta Brian Keith) che ha un grosso problema in casa: la cui moglie (Julie Harris) ha partorito una bambina morta subito dopo il parto, dopo lunghissime doglie, e poi ha avuto gravi turbe psichiche, pur mantenendo un aspetto esteriore rassicurante si è provocata delle automutilazioni: ma noi lo verremo a sapere solo verso la fine del film, è un segreto che la donna si è portata dentro fino alla fine.
Nel film ci sono molte altre cose sterili, oltre al sesso: si vedono vuote esibizioni di forza (la boxe) e un’impotenza generale, oppure omosessualità e perversioni, come il voyeurismo del soldato Williams: tutte cose sterili, per l’appunto, che non portano futuro.
Molto importante, vera protagonista, è la potenza della Natura: raffigurata dai cavalli dei militari (nel campo c’è un maneggio) e dal soldato Williams (l’attore è Robert Forster). Una Natura che osserva, che soffre, che sta in disparte, e che alla fine è la vera vittima del dramma, insieme all’Arte (la musica della moglie di Brian Keith, la pittura). E’ un mondo che nega la musica e l’arte, preferendogli un regolamento e una disciplina che però sfuggono da tutte le parti a chi dovrebbe mantenerle; è un mondo di militari ottusi che si ubriacano e parlano di principii che conoscono solo come convenzione, esteriormente, ma che non praticano; e che picchiano i loro cavalli, anche fino a farli morire, per sfogare le proprie personali frustrazioni. Un mondo chiuso, da caserma o da dirigente d’azienda, o da parlamentare-assessore, dove nessuno è capace di andare oltre i miseri confini che si è costruito intorno; e dove l’amore per il prossimo non ha nessun posto.
Film girato con stile molto hustoniano, ricorda molto un altro film di Huston di pochi anni precedente, “The list of Adrian Messenger” (1963), per le scene quasi documentarie dei cavalli e della lunga cavalcata di Brando.
Protagonista è Marlon Brando, nel film sua moglie è Elizabeth Taylor. L’altra coppia è costituita da Brian Keith, attore famoso qui da noi per i suoi film della Walt Disney, e da Julie Harris. Una parte molto importante è quella di Zorro David, un attore che ha all'attivo solo questo film, che interpreta il domestico filippino Anacleto; altrettanto importante, ma quasi silenziosa, è quella del soldato Williams, interpretato da Robert Forster. Il “riflesso” di cui parla il titolo è nell’occhio dorato di un pavone dipinto da Anacleto. Molto interessanti e molto appropriate le musiche del giapponese Toshiro Mayuzumi.
L’altra faccia di questo film potrebbe essere “Un tranquillo weekend di paura” di John Boorman (1972): ancora la Natura, ma nel suo aspetto più selvaggio e terribile, aggressiva e indifferente fino alla crudeltà, il predato e il predatore. Una Natura leopardiana, contrapposta al silenzio e all’oscurità, e alla sofferenza distaccata, del film di Huston. Innocente ma indifferente, si osserva ma non si giudica e non si partecipa, si lascia che gli eventi seguano il loro corso; e dove non è affatto scontato che l’uomo sia davvero al centro della creazione.
Sono molte le scene pesanti e spinte, non perché vi si mostri il sesso ma perché sono situazioni non adatte a persone non del tutto mature. In questo caso, trovo giustificato che si continui a mantenere il divieto ai minori, anche dopo quaranta o cinquant’anni.
Alcuni dialoghi dal film:
Brian Keith: (riferendosi ad Anacleto) ...è chiaro che io lo prendevo in giro, ma penso davvero che venire sotto le armi sarebbe stata la cosa migliore per lui.
Liz Taylor: (seccata) Comunque, sarebbe davvero molto lusingato se potesse sentire in quale maniera ne parli adesso!
Brian Keith: Non sarebbe stato felice sotto le armi, ma forse il servizio militare avrebbe fatto di lui un uomo, gli avrebbe tolto molte delle sue fissazioni. E’ piuttosto penoso vedere un uomo di quell’età che balla sulle punte al ritmo di una musica immaginaria, e che dipinge con gli acquarelli le figure più fantastiche. Sotto le armi gli avrebbero sicuramente lisciato il pelo. Gli avrebbero reso la vita amara, ma qualunque cosa sarebbe stata preferibile a tutte quelle sue manie.
Marlon Brando: Vuoi dire che qualunque traguardo raggiunto a spese della normalità è sbagliato, e non può essere capace di procurare felicità? In altre parole, è meglio, perché moralmente più onorevole, che un piolo quadrato continui a raschiarsi per entrare in un foro rotondo piuttosto che cercare di trovare quel foro quadrato in cui si adatterebbe?
Brian Keith: Beh, ...sì, in linea di massima sì. Non sei d’accordo con me?
Marlon Brando: (pausa) No. Tutt’altro. (si alza) Scusatemi.
Siamo verso la fine del film, quando la moglie di Brian Keith non c’è più ed Anacleto se ne è andato senza dare sue notizie; alla fine di questo dialogo, il maggiore Weldon Penderton (cioè Marlon Brando) rompe una delle “cianfrusaglie” della moglie (cioè Liz Taylor), che è in realtà una statuetta preziosa, e dice che a lui piacciono le case spoglie ed essenziali; poi prosegue con un lungo monologo in cui esalta la vita militare e l’amicizia virile.
Il punto di partenza di questo dialogo è la morte della moglie del tenente colonnello Langdon (Brian Keith) e la conseguente “fuga” del suo cameriere filippino Anacleto (l’attore si chiama Zorro David). Keith e la Taylor sono amanti, Brando è forse impotente o forse omosessuale represso, e Anacleto è un bizzarro tipo di omosessuale un po’ infantile, innamoratissimo della sua padrona malata e mal sopportato dal suo “padrone” (ma, dopo la morte improvvisa della moglie, a Langdon dispiace che Anacleto se ne sia andato e vorrebbe parlare con lui).
Morando Morandini, da “Il Castoro Cinema”:
Quando il produttore Ray Stark (La notte dell'iguana) gli parla di un film da “Reflections in a Golden Eye”, romanzo breve pubblicato nel 1941 di cui Mortimer Chapman, narratore inglese, aveva scritto un adattamento, Huston accetta subito la proposta («Ammiravo enormemente il lavoro di Carson McCullers...Avevo letto tutto quel che aveva scritto. Non che avessi mai pensato di fare quel film in particolare, non leggo mai con quell'idea in mente.») e comincia con la sua vecchia complice Gladys Hill a lavorare alla sceneggiatura. La fa leggere all'autrice, da molto tempo malata, invalida e rinchiusa, come una Dickinson moderna, nella sua villa di Nyack, vicino a New York. Quando Huston va a trovarla, l'autrice di “Il cuore è un cacciatore solitario”, l'ex-bambina prodigio della narrativa del Sud, che da tre anni non si muove dal letto, gli dà il suo assenso, aggiungendo qualche suggerimento. Parlano dell'Irlanda dove la McCullers non è mai stata e che sogna di vedere. Huston la convince ad affrontare i disagi del viaggio, e si dà da fare per renderlo possibile: trasporto in autoambulanza all'aeroporto, barella sull'aereo, un'infermiera al seguito. La scrittrice passa un mese nella sua dimora di County Galway senza mai lasciare il letto. Tornata a New York, muore dopo alcuni mesi, a cinquant'anni.
Tolti alcuni esterni di baraccamenti militari a Long Island, Huston gira “Riflessi in un occhio d'oro” negli stabilimenti di De Laurentiis a Roma e nei dintorni (per ragioni fiscali Elizabeth Taylor preferiva in quel periodo non lavorare negli Stati Uniti), ma l'ambientazione americana (Georgia) non ne soffre: nonostante le sortite a cavallo del soldato Williams, l'azione drammatica è quella di un dramma psicologico a porte chiuse.
L'occhio d'oro è quello di un uccello fantastico che Anacleto, bizzarro e bambinesco servo filippino, dipinge per Mrs. Alison (Julie Harris), sua padrona, ma simbolicamente si può riferire all'altro personaggio di emarginato e di inferiore che nel romanzo è il vero perno della vicenda: il soldato Williams (Robert Forster) il cui occhio dovrebbe essere quello di Pan, cioè della natura che contempla il comportamento degli uomini.
Nel film il centro dell'interesse si sposta sul rapporto tra Williams e il maggiore Weldon Penderton (Marlon Brando). Come dice Huston («Positif», n. 116), il film gira intorno a due incidenti: il giovane soldato vede una donna nuda e il maggiore scopre l'esistenza del giovane soldato: «Tutto il film poggia su questi due hasards. Una serie di avvenimenti implacabili deriva da questi due incontri. La logica interna del film è costruita su questi due fatti, entrambi riferiti al maggiore e al giovane, che diventano i due poli della storia, una storia dove tutti guardano tutti. E io faccio come i miei personaggi: guardo. Non giudico. Mi limito a guardare. Era uno dei punti importanti del romanzo, quest'assenza di giudizio. E’ uno sguardo distaccato.... Il che mette il pubblico nella posizione di Dio. ...In apparenza non c'è alcun messaggio, e ciò inquieta gli spettatori che sono costretti ad assumersi le loro responsabilità ».
Sulla scia di Leslie Fiedler, il critico inglese Raymond Durgnat vede nel soldato Williams un'altra incarnazione mitica dell'America rurale: l'americano innocente, il nobile e infantile selvaggio, il cavaliere solitario, solennemente virginale e fascinosamente irresponsabile, mezzo Peter Pan e mezzo Caino perché anch'egli ha un cadavere nell'armadio (c'è un omicidio nel suo passato). L'obliqua attrazione omosessuale per lui del maggiore Penderton nasce dal sentimento contraddittorio, un miscuglio di fascino e di repulsione, verso la sua energia, il suo "mistero" animale. Contrariamente a sua moglie Leonora che abbina in sé l'energia attiva di entrambi i sessi senza avere le debolezze né dell'uno né dell'altro, Penderton «otteneva sessualmente un delicato equilibrio tra gli elementi maschili e femminili con le suscettibilità di entrambi i sessi, ma senza avere il potere attivo di nessuno dei due - così lo descrive, non senza una punta di sarcasmo, la McCullers -. Aveva una triste inclinazione a innamorarsi degli amanti di sua moglie». Non avendo, come la scrittrice, complessi omosessuali, Huston ha una maggiore comprensione per il personaggio o, comunque, un maggiore distacco critico e, con la sua straordinaria capacità di rendere fisicamente tangibili le emozioni più profonde, Brando è superbo nel fare di Penderton una figura di inquietante (o imbarazzante?) ambiguità nevrotica (Huston: «Occorrerebbero ore per dire tutto il bene che penso di lui. Credo che sia il migliore attore con cui ho lavorato. Penetra in qualche recesso, nel fondo di qualche caverna del suo spirito e ne riemerge con la rivelazione di qualcosa che è nuovo, inatteso, impressionante »).
Penderton è la reazione alla mitica e arcaica America rurale che Williams incarna. Secondo Raymond Durgnat, «si nasconde non in una foresta vergine, ma nelle sue immacolate tecniche sociali, e in tutto quel che d'impersonale implicano [...] Ma la meticolosità di Penderton, la sua pedanteria, il suo spartano piacere nell'estetica dell'esercitazione militare, tutte le qualità professionali che costituiscono la difesa in profondità contro il suo strano miscuglio di energie animali, inferiorità e nostalgie, non sono soltanto negative». L'ambivalenza di Penderton mette a disagio lo spettatore, portato a simpatizzare con lui dall'interno, ma contemporaneamente costretto a guardarlo dall'esterno e a cogliere quel tanto di caricaturale che trapela dalla sua militaresca rigidità.
È una delle ragioni che hanno determinato l'insuccesso del film e la sua sottovalutazione da parte della critica che, nella maggior parte dei casi, gli passò accanto senza penetrarlo. Spettatori e critici furono disorientati da quel filo di grottesco che attraversa il dramma (non a caso qualcuno parlò di parodia involontaria) e dal rifiuto di Huston di dare valutazioni morali e spiegazioni psicologiche (Huston: «Ogni volta che affrontate l'omosessualità, i critici ritengono che facciate un'opera psicanalitica. Invece non c'è nessuna spiegazione. Soltanto fatti»).
Lo stesso disagio suscita Alison Langdon, interpretata da Julie Harris che quattordici anni prima era stata una memorabile Frankie in “The Member of the Wedding” di Zinnemann, tratto da un altro noto romanzo della McCullers. Nel quadrilatero dei personaggi dove si gioca la partita, con i due "inferiori" Williams e Anacleto all'esterno, Alison e Penderton sono i due nevrotici in opposizione a Leonora Penderton e al colonnello Langdon la cui "normalità" è resa benissimo da Elizabeth Taylor e Brian Keith (Huston: « È formidabile. È uno di quegli attori modesti che sanno far passare un numero incredibile di cose [...] Dietro a quella facciata e quel fisico, c'è qualcosa di gentile. C'è un'anima in qualche parte dentro Brian Keith; è dura da trovare ma esiste»). Anche Alison è a doppio fondo. Le qualità che la rendono il personaggio più amabile del quartetto - la delicata fragilità, la pazienza, l'altruismo - nascondono una forte componente di masochismo, frutto di un odio puritano per la carne, e l'istinto, che l'ha spinta a mutilarsi i capezzoli con un paio di smussate forbici da giardino dopo la morte del suo bambino e la scoperta dell'adulterio del marito con Leonora.
Anche con “Riflessi in un occhio d'oro” Huston continuò i suoi esperimenti cromatici. Con il fido Oswald Morris che dopo pochi giorni sostituì Aldo Tonti e l'aiuto dei tecnici italiani di un laboratorio romano di sviluppo e stampa, cercò di ottenere una tonalità dominante di oro-arancio, denaturando il negativo originale Technicolor, già tenuto nelle riprese su toni leggeri, e sottoponendolo poi a una complessa operazione di filtri. I risultati furono molto soddisfacenti per Huston, ma anche in questa occasione dovette fare i conti con l'ottusità arrogante del potere, con il capo dell'ufficio vendite della Warner Bros che, contrario al procedimento, ordinò di stampare le copie (almeno i due terzi del totale, secondo Huston) nel modo tradizionale.
(Morando Morandini, da "Il Castoro Cinema")

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