mercoledì 26 ottobre 2011

Federico Fellini ( III )

Riguardo ai suoi collaboratori, e in particolare a Nino Rota, abbiamo la testimonianza diretta di Fellini:
Federico Fellini, da “Intervista sul cinema” a cura di Giovanni Grazzini, ed. Laterza 1983
- Hai sempre avuto intorno molti collaboratori, spesso importanti, celebri. Ma ce n'è uno più prezioso, più speciale degli altri?
Fellini: È vero, ho avuto collaboratori preziosi, non solo per il talento, la fantasia, l'intelligenza, ma per il festoso sentimento di amicizia per cui si lavorava insieme con la gioia e l'eccitazione di una scampagnata, un viaggio, una gita. Voglio ricordarne qualcuno: Piero Gherardi, lo scenografo della Dolce Vita, di Giulietta degli Spiriti, aristocratico e clochard, un ospite intellettuale in casa Trimalcione, saggio e indifferente come un bonzo, e avido, goloso, immaturo come un neonato. Mi ricordo certe notti passate a dormire insieme dentro l'automobile sperduta nel fondo di un vallone di briganti; cercavamo una radura per il Paese dei Balocchi. Non l'ho mai detto, ma fra i progetti mai realizzati c'è stato anche Pinocchio. Un altro collaboratore molto intonato e congeniale è Danilo Donati, fantasioso, ricchissimo inventore di costumi e oggetti di scena. Dal punto di vista figurativo, considero Satyricon e Casanova tra i miei film più affascinanti. Per un autore di cinema, i collaboratori più importanti, non sono soltanto gli scenografi, gli operatori, gli sceneggiatori, ma anche uno svelto, furbo, tempestivo, piratesco direttore di produzione può diventare una molla fondamentale del film. Considero Tullio Pinelli, con il quale ho scritto tante sceneggiature, un inventore di storie, un costruttore di trame, di situazioni e di personaggi, che ha la vocazione e il temperamento di un autentico romanziere. Con Flaiano, l'equilibrio fra noi tre mi sembrava perfetto. Pinelli si preoccupava della struttura narrativa, era quello il suo chiodo fisso, e Flaiano faceva di tutto per farla crollare, mandarla in frantumi: a volte era più disastroso di un cinghiale in un campo di fave. Eppure, proprio per queste tendenze così opposte, quelle parti di mura che restavano in piedi tra le macerie, potevano considerarsi le strutture portanti del racconto. Mi univa a Flaiano lo stesso senso umoristico delle cose, la tendenza a sdrammatizzare, lo scherzo, la buffoneria, e una nota di nevrotica malinconia che me lo faceva sentire molto amico.
Anche l'incontro con Bernardino Zapponi è stato stimolante. Abbiamo lavorato bene insieme. Le stesse esperienze, le stesse avventure, il « Marc'Aurelio », l'avanspettacolo, gli stessi entusiasmi e amori, Poe, Dickens, Lovecraft, l'occulto, lo spettrale, l'avventura mitologica, la fantascienza, i siparietti, e un senso impiegatizio del lavoro tra ribalderia e timore di licenziamento. Con Tonino Guerra ho scritto Amarcord e E la nave va. Ci lega lo stesso dialetto, un'infanzia passata tra quelle stesse colline, la neve, il mare, la montagna di San Marino. I due paesi dove siamo nati distano l'uno dall'altro nove chilometri; da ragazzino andavo in bicicletta con altri amici fino a Sant'Arcangelo, e ci sembrava che parlassero un'altra lingua. Noi di Rimini consideravamo Sant'Arcangelo un paese da colonizzare, neanche i missionari vi erano ancora arrivati: «Capo, i portatori vogliono tornare indietro!», diceva Titta, alludendo allo stato selvaggio e inospitale di Sant'Arcangelo.
Ma il collaboratore più prezioso di tutti, posso rispondere senza riflettere, era Nino Rota. Tra noi c'è stata subito un'intesa piena, totale, fin dallo Sceicco bianco, il primo film che facemmo insieme. La nostra intesa non ha avuto bisogno di rodaggio. Io mi ero deciso a fare il regista e Nino esisteva già come premessa perché continuassi a farlo. Aveva una immaginazione geometrica, una visione musicale da sfere celesti, per cui non aveva bisogno di vedere le immagini dei miei film. Quando gli chiedevo quali motivi aveva in mente per commentare questa o quella sequenza avvertivo chiaramente che le immagini non lo riguardavano: il suo era un mondo interno, in cui la realtà aveva scarsa possibilità di accesso. Viveva la musica con la libertà e la facilità , di una creatura che viva in una dimensione che le è spontaneamente congeniale. Era una creatura che portava con sé una qualità rara, quella qualità preziosa che appartiene alla sfera dell'intuizione. Era questo il dono che lo manteneva così innocente, aggraziato, lieto. Ma non vorrei essere frainteso. Quando si presentava l'occasione, o anche quando l'occasione non si presentava, diceva delle cose acutissime, profonde, dava giudizi di impressionante esattezza su uomini e cose. Come i bambini, come gli uomini semplici, come certi sensitivi, come certa gente innocente e candida, diceva improvvisamente delle cose abbaglianti...
Durante la lavorazione dei miei film ho l'abitudine di usare certi dischi in sottofondo; la musica può condizionare una scena, darle un ritmo, suggerire una soluzione, un atteggiamento del personaggio. Ci sono dei motivi che mi porto dietro da anni, vergognosamente, La Titina, la Marcia dei Gladiatori, che sono legati a precise emozioni, a temi viscerali. Poi ovviamente capita che quando ho finito di girare il film mi affeziono a quella colonna sonora improvvisata e non vorrei più cambiarla. Nino mi dava subito ragione, diceva che i motivi con i quali avevo girato erano bellissimi (anche se si trattava della più zuccherosa e sgangherata canzonetta), che erano proprio quelli giusti e che lui non avrebbe saputo fare di meglio. E mentre diceva così giocherellava con le dita sul pianoforte. «Che cos'era questo?», domandavo io dopo un po'; «Cosa suonavi?» «Quando?» chiedeva Nino con aria distratta. «Adesso - insistevo - mentre parlavi hai suonato qualcosa». «Ah, sì? - diceva Nino - Non so, non mi ricordo più». E mi sorrideva con l'aria di volermi tranquillizzare: non dovevo aver rimorsi o scrupoli, i dischi che avevo usati erano bellissimi. E intanto continuava ad accarezzare la tastiera del pianoforte come per caso qua e là.
Nascevano così i nuovi motivi del film che mi conquistavano subito, e mi facevano dimenticare le suggestioni delle vecchie canzonette usate durante le riprese. Io mi mettevo lì, presso il piano, a raccontargli il film, a spiegargli cosa avevo voluto suggerire con questa o quella immagine, con questa o quella sequenza; ma lui non mi seguiva, si distraeva, pur se annuiva, pur se diceva di sì con grandi gesti di assenso. In realtà stava stabilendo il contatto con se stesso, con i motivi musicali che già aveva dentro di sé. E quando quel contatto veniva stabilito, non ti seguiva più, non ti ascoltava più, metteva le mani sul pianoforte e partiva come un medium, come un vero artista. Alla fine gli dicevo: «È bellissimo!». Ma lui mi rispondeva: «Non me lo ricordo già più». Erano delle catastrofi alle quali in seguito facemmo fronte con i magnetofoni, i registratori. Ma bisognava metterli in funzione senza che se ne accorgesse, altrimenti il contatto con la sfera celeste si interrompeva...
Era una vera gioia lavorare con lui. La sua creatività te la sentivi così vicina che ti comunicava una
sorta di ebbrezza fino a darti la sensazione che la musica la stessi facendo tu. Nino arrivava alla fine, quando lo stress per le riprese, il montaggio, il doppiaggio era al massimo, ma come arrivava lo stress spariva e tutto si trasformava in una festa, il film entrava in una zona lieta, serena, fantastica, in un'atmosfera dalla quale riceveva come nuova vita. Ed era sempre una sorpresa che dopo aver messo nel film tanto sentimento, tanta emozione, tanta luce, si girasse verso di me per chiedermi, alludendo al protagonista: «Ma quello chi è?». «È il protagonista», gli rispondevo. «E che fa? - aggiungeva con tono di rimprovero - Tu non mi dici mai niente!». La nostra era un'amicizia vissuta sui suoni.
Al di fuori del mio lavoro la musica preferisco invece non sentirla. Mi condiziona, mi allarma, ne vengo posseduto. Mi difendo rifiutandola, scappando via come un ladro dalle occasioni. Forse sarà ancora un condizionamento cattolico. Il fatto è che la musica mi immalinconisce, mi carica di rimorsi, è come una voce ammonitrice che ti strugge perché ti ricorda una dimensione di armonia, di pace, di compiutezza, dalla quale sei stato escluso, esiliato. La musica è crudele. Ti gonfia di nostalgia e di rimpianto, e quando finisce non sai dove va. Sai solo che è irraggiungibile e questo ti rende triste. Io non posso sentire uno che picchietti con le dita sul tavolo che subito sono disturbato e succhiato in quella specie di respiro diverso che quel ritmo propone. Invece Nino, nel bel mezzo di una banda che suonava fragorosamente un suo motivo, riusciva a scrivere le note di un altro motivo che stava sentendo
(Federico Fellini, da “Intervista sul cinema” a cura di Giovanni Grazzini, ed. Laterza 1983)
(continua)

2 commenti:

giacy.nta ha detto...

Conosco solo la musica di Nino Rota. Adesso che so qualcosa in più di lui e del modo in cui componeva, capisco perchè le sue opere hanno un carattere molto poco terrestre.
Grazie, Giuliano, per aver proposto questa intervista.

Giuliano ha detto...

Rota è uno dei grandi compositori del 900, ma forse lo sai già. A me piace moltissimo una sua opera, "Il cappello di paglia di Firenze", da Labiche, dove ha scritto musica e libretto (il libretto insieme a sua moglie). Ne esiste una bella registrazione tv della RAI, diretta da Campanella, con Juan Diego Florez protagonista.
Quanto a Fellini e alla musica, i giornalisti distratti gli fanno dire delle gran fesserie (è successo anche di recente) invece la sua vera opinione è questa qui, basterebbe leggere, informarsi.