domenica 20 novembre 2011

Il sarto di Wenders

Appunti di viaggio su moda e città (Aufzeichnungen zu Kleidern und Städten, 1989). Scritto e diretto da Wim Wenders. Documentario sul sarto giapponese Yamamoto, ideato da François Burkhardt per il Centre Pompidou di Parigi. Fotografia di Robby Müller, Wim Wenders, e altri. Musiche originali di Laurent Petitgand. Interpreti: Yohji Yamamoto, Wim Wenders, Solveig Dommartin, modelle e collaboratori di Yamamoto. Durata: 80 minuti.

Nel 1989 Wim Wenders scopre la videocamera e l’immagine elettronica (io ci arriverò solo nel 2003) e ne parla in “Appunti di viaggio”. Che è però un film piuttosto brutto, proprio quello che temevo che fosse e che me lo ha fatto evitare per due decenni: speravo in qualcosa di simile a “Tokyo-ga”, il film del 1982 che Wenders aveva dedicato al grande regista giapponese Ozu, ma mi sono dovuto ricredere. è proprio soltanto un documentario dedicato al sarto giapponese Yohji Yamamoto. Non so se il film possa interessare gli appassionati di moda, però qualcosa di buono c’è, per esempio ho scoperto che il cognome Yamamoto in giapponese si traduce bene con i nostri “Piedimonte” o “Pedemonte” (è lo stesso sarto che ce lo spiega: “ai piedi della montagna”).
E, soprattutto, all’interno di questo film ci sono alcune belle riflessioni di Wenders: la prima è questa cosa qui (quasi una poesia) che è scritta e che scorre subito dopo i titoli di testa.
You live wherever you live, you do whatever work you do, you talk however you talk, you eat whatever you eat, you wear whatever clothes you wear, you look at whatever images you see...You’re living however you can. You are whoever you are.
“Identity “: of a person, of a thing, of a place. “Identity “: the word itself gives me shivers.
It rings of calm, comfort, contentedness. What is, identity? To know what you belong? To know your self worth? To know who you are? How do you recognize identity?
We are creating an image of ourselves, we are attempting to resemble this image... Is that we can call identity? To accord between the image we have created of ourselves, and... ourselves?
We live in the cities, the cities live in us... Time passes. We move from one city to another, from our country to another. We change languages, habits, opinions, we change clothes, we change everything. Everything changes. And fast. Images above all.
(Wim Wenders, l’inizio di “Appunti di viaggio)
Si prosegue, con la voce fuori campo di Wenders mentre scorrono le immagini della sua macchina che percorre le vie d’ingresso a Tokyo.
«Soprattutto le immagini cambiano, e si moltiplicano con velocità frenetica, a partire dal big bang delle immagini elettroniche, che ora sostituiscono ovunque le fotografie. Col tempo, abbiamo imparato a confidare nell’immagine fotografica; ma possiamo fidarci dell’immagine elettronica? Con la pittura era tutto più semplice: essendo unico l’originale, ogni copia era una copia, cioè un falso. Con la fotografia e poi con il cinema tutto si è fatto più complicato: l’originale è un negativo e non può esistere senza la copia; e ogni copia è un originale. Ora, con l’immagine elettronica e presto con quella digitale, non c’è più negativo né tantomeno un positivo. L’idea stessa di originale decade. Tutto è copia. Ogni distinzione sembra puro arbitrio: ecco perché il concetto di identità è caduto tanto in basso.»
«L’identità è out, non fa più moda: bene, ma che cosa è dunque “di moda”, se non la moda stessa? La moda è sempre “in”, per definizione. Identità e moda sono due termini contrari?»
«La moda. “Statemi alla larga con la moda” fu il mio primo commento quando il Centre Pompidou di Parigi mi chiese di realizzare un cortometraggio sul mondo della moda. “A me interessa il mondo, non la moda”. Ma forse la moda non andava liquidata così in fretta. Perché non trattarla come ogni altra industria, come il cinema per esempio?»
Wenders dice che l’abito rosso di Solveig Dommartin, nel finale di “Il cielo sopra Berlino”, è opera di Yamamoto: è da qui che nasce il suo interesse per il sarto giapponese. Prima, non aveva mai fatto caso più di quel tanto a come ci si vestiva.
Si prosegue con l’intervista a Yamamoto, poi ancora Wenders al minuto 49:
« ...all’improvviso, davanti alle turbolente strade di Tokyo, mi sono reso conto che l’immagine di questa città potrebbe anche essere elettronica, e non solo le mie “sacre” immagini di celluloide (i film di Ozu). Il linguaggio della videocamera era del tutto consono a questa città: il linguaggio visivo non era affatto prerogativa del cinema. Bisognava ripensare tutto? Tutti i concetti di identità, di linguaggio, di immagine, il lavoro dell’autore. Forse i nostri futuri autori saranno gli artefici di spot pubblicitari, videoclip, giochi elettronici, programmi per computer...Tremendo!»
«E il cinema? Quest’invenzione del XIX secolo, l’arte dell’epoca meccanica, questo stupendo linguaggio di luce e movimento, fatto di miti e di avventura, che sapeva parlare di amore e di odio, di guerra e di pace, di vita e di morte, che fine avrebbe fatto? E tutte le figure artigianali che lavorano dietro la cinepresa, alle luci, nella sala di montaggio, dovranno riciclarsi?»
«Sarebbe mai esistito un artigianato dell’elettronica, un artigianato del digitale? Questo nuovo linguaggio elettronico sarebbe stato in grado di mostrare gli uomini del XX secolo come ha fatto la “still camera” di August Sander? (il libro di fotoritratti di inizio 900 che si vede in “Il cielo sopra Berlino” e in questo film).»
Nel commento, rivedendo oggi il film, Wenders dice: no, quei mestieri sono scomparsi, oggi è quasi impossibile trovare un laboratorio per il bianco e nero. Il commento di Wenders al film (è sugli extra del dvd), minuto per minuto, lo ascolto dopo aver visto tutto il film; e mi ritrovo a pensare che è molto meglio il commento del film, ma chissà se si può dire.
Wenders mi fa sentire anche un po’ stupido: non ho capito subito che nelle immagini si mescolavano Parigi e Tokyo, tranne che per i punti dove Parigi è facilmente riconoscibile (del resto, io non sono mai stato né a Tokyo né a Parigi). Wenders dice: “Yamamoto sta parlando a Tokyo, ma sullo sfondo c’è Montmartre, cè Le Sacre Coeur”; per me Montmartre è ormai uguale a Tokyo, tutte case di cemento, che ne so io che quella collinetta là in fondo è Montmartre?
In un’intervista degli anni ‘70, Jean Renoir dice che la rovina di Montmartre è stata l’invenzione del cemento armato: prima, nell’Ottocento, ai tempi di suo padre, a causa del terreno cedevole non si potevano costruire case più alte di un piano, magari due. Dopo, con il cemento armato, è stato possibile. Questo mondo di cemento armato, questi grattacieli, questi cavalcavia, a Wenders piacciono: a me no, e soffro nel vedere che questi costosissimi orrori, che ci fanno vivere male e che costano moltissimo anche solo per l’ordinaria amministrazione (il riscaldamento, l’acqua e le pulizie, per esempio), sono ormai arrivati anche a Milano. E ovunque.
Quando comincio a vedere “Appunti di viaggio” il mio pensiero corre subito ad un magnifico numero, che ancora conservo, dell’Illustrazione Italiana, quello sui giardini zen, quei posti ordinatissimi dove non ci sono piante ma ghiaia bianchissima e pietre. I giardini zen: tradotto nel nostro linguaggio, diventa autobloccanti, cemento, lampioni a gas finti ma che “fanno tanto vintage”, e infine “il centro storico di Lazzate”, che qui dalle mie parti viene spesso citato come esempio di politica urbanistica. In definitiva, figli e figliastri del razionalismo degli anni ’20 e ‘30. Alberelli in gabbia, dentro un cerchiolino di cemento, sistemati in mezzo alla pietra del lastricato. Alberelli stentati, destinati agli urti delle automobili in sosta, spesso sistemati in pochi metri di terra perché sotto ci sono cantine, fogne, metropolitane. Ai primi soffi di vento, questi alberelli vanno giù: le radici non possono attecchire, e se attecchiscono “disturbano”. Un antico concetto di filosofia orientale, il giardino di sassi e di pietre, che trasportato qui da noi diventa il trionfo del cemento e degli autobloccanti. Forse, non poteva essere altrimenti: in Giappone, dietro, c’era una forma religiosa, un culto paziente e rispettoso del silenzio; qui da noi c’è un solo Dio, ed è il denaro; e il silenzio va sistematicamente distrutto e riempito.
L’immagine elettronica, oggi trionfante, è in teoria un’ottima cosa ma è sempre più manipolata, ritoccata, falsa. Le donne dei film e della pubblicità non hanno più rughe, nemmeno dove dovrebbero esserci; il loro seno è sempre e comunque sopra la terza misura, e perfettamente sferico. Tutto questo si è esteso anche al cinema; e ormai il cinema, anche Kubrick, anche Wenders, lo si vede su schermi sempre più piccoli, e il futuro è questo: uno schermo minuscolo, che sta nel palmo della mano.
Nel film c’è anche una breve apparizione di Solveig Dommartin; molto buone le musiche di Laurent Petitgand, che appare come attore in “Il cielo sopra Berlino” (il fisarmonicista del circo) e che ha scritto musiche anche per altri film di Wenders. Il titolo originale inglese è “Notebook on cities and clothes”, il che mi fa pensare che io ho qui sul pc un file, ormai ventennale, che ho chiamato “Notebook”. Quando capita che qualcuno lo noti, mi chiedono sempre se ho un pc portatile: ma no, “notebook” si traduce con taccuino, notes, un blocco di fogli dove prendere appunti. Appunti di viaggio, magari; e magari scritti a matita.

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