domenica 25 dicembre 2011

Herzog, Lévi-Strauss, Conrad, Rousseau

Fitzcarraldo (idem, 1982) Scritto e diretto da Werner Herzog. Fotografia: Thomas Mauch. Musica di Giuseppe Verdi, Giacomo Puccini, Vincenzo Bellini, Richard Strauss. Musiche originali: Popol Vuh. Interpreti: Klaus Kinski, Claudia Cardinale, José Lewgoy, Miguel Angel Fuentes, Paul Hittscher, Huerequeque Enrique Bohorquez, Grande Otelo, Peter Berling, David Pérez Espinosa, Milton Nascimento, Ruy Polanah; tribù amazzoniche Ashininka-Campa del Rio Tambo e Machiguengas del Rio Camisea. Durata:158 minuti

“Se non mi avessero lasciato fare Fitzcarraldo sarei stato un uomo senza sogni”, dice Herzog alla fine del commento al film, sul dvd. Un sogno, non come lo intendiamo noi occidentali ma come per gli aborigeni australiani del film di Herzog immediatamente seguente a Fitzcarraldo: “Dove sognano le formiche verdi”.
Ma poi, ecco chi c’era ancora dietro Cuore di tenebra, ma anche Aguirre e Fitzcarraldo: Jean Jacques Rousseau, filosofo ginevrino.
Lévi-Strauss compie cento anni
di Antonio Gnoli, La Repubblica 23 maggio 2008
...Quando nel 1934 Claude Lévi-Strauss si imbarcò dal porto di Marsiglia, destinazione le foreste del Brasile, circolava un film che alla giungla aveva innalzato una monumentale metafora di tutte le paure che un mondo altro e arcaico suscitano nell'uomo occidentale. “King Kong” uscì nelle sale cinematografiche nel 1933 e, come tutti sanno, narra di un re spodestato dal suo regno e portato in catene nella scintillante New York. Lo scimmione è un sovrano sui generis che incute terrore tra gli indigeni dell'isola, fino a quando un manipolo di bianchi immaginano di ricavarne un grande spettacolo: tanto più pittoresco ed efficace quanto più l'immagine del grande gorilla risulterà teatralmente terrificante.
In fondo ciò che l'Occidente, nelle sue componenti più ciniche e affaristiche, ha sempre saputo gestire è la paura. Sia che si tratti di un sentimento nato da una finzione, sia che sgorghi dai segreti meandri della realtà, la paura - moneta che circola abbondantemente nei giorni nostri - è un motore formidabile che alimenta immaginario e potere, i loro lati oscuri, notturni, impenetrabili. Ma soprattutto disorientanti.
Lévi-Strauss trascorse diversi anni nelle foreste del Mato Grosso. Vi giunse nel 1935 e ripartì nel 1939. Su quell'esperienza lasciò per anni calare il silenzio. Non una parola che ricordasse le difficoltà, i rischi, i timori, che gli incontri con civiltà indigene, remote e incontaminate gli avevano procurato. Poi, quindici anni più tardi, decise di raccontare quello che aveva visto e vissuto. E ne venne fuori Tristi Tropici, un'opera unica. Assoluta, come possono esserlo quei libri senza precedenti veri. Nasceva con pochi ingredienti: lo sguardo rivolto al concreto, il rispetto per le cose viste e, soprattutto, il talento narrativo. Giacché alla fine quel libro che comparve la prima volta nel 1955 era soprattutto un grande romanzo.
Lévi-Strauss (il grande vecchio compirà cento anni a novembre, si sono tenuti convegni sulla sua figura e altre celebrazioni sono previste in Francia e in Italia) scrisse Tristi tropici in quattro mesi. Il libro nasceva da urgenze diverse: il divorzio dalla prima moglie, la bocciatura al Collège de France, il progetto - vago, seducente e poi abortito – di scrivere un romanzo che avesse come protagonista una specie di truffatore europeo che circuisce gli indigeni della foresta amazzonica.
Non so se davvero Lévi-Strauss si sentisse alla pari di un mestatore occidentale pronto a carpire la buona fede del selvaggio, di sicuro c'è che Tristi tropici è attraversato da un singolare senso di colpa, che lo spinge a raccontare, con nostalgia e realismo, un mondo che sarebbe sparito.
In certe pagine egli non esita a mettere sotto accusa il mestiere dell'etnologo, condizionato da
un'ambiguità che mina, almeno in parte, la legittimità scientifica della ricerca sul campo. Da un lato egli indaga le regole che governano le relazioni di parentela, la forza del mito, la logica del pensiero selvaggio; dall'altro è consapevole che ogni intervento, anche il più neutrale, può risultare devastante per la realtà che si intende indagare. E’ la ragione per cui odia viaggiare. Lo sconcertante: «Odio i viaggi e gli esploratori, ed ecco che mi accingo a raccontare le mie spedizioni».
L'odio è un sentimento tagliente e pericoloso. Va maneggiato con cura. E le prime righe del libro sono rivelatrici di qualcosa che prima di allora si trova, in maniera così esplicita, solo in un altro autore: Jean Jacques Rousseau. Entrambi condividono lo stesso subbuglio psichico, il medesimo impeto e sdegno. Rousseau non odia i viaggi, ma odia tutto ciò che è civilizzazione. Il peso di quell'odio bilancia l'amore che nutre per l'innocenza perduta, per quello stato di natura che, con qualche sforzo di immaginazione, potremmo vedere abitato dalle tribù dei Bororo, dei Nambikwara, dai Tupi Kawahib che Lévi Strauss visita, fotografa, filma, racconta.
È uno sforzo immane quello a cui l'etnologo si sottopone in quegli anni, segnati da fatiche, privazioni, pericoli e dalla convinzione che un mondo opposto per stile e sostanza all'Occidente stia lentamente morendo. Ai suoi occhi il Brasile è un paradigma della storia mutevole, del passaggio dal fugace splendore di alcune città alla loro decadenza, dalla ricchezza della terra alla desolazione dei frutti. Quel mondo, che descrive con raro talento narrativo, è condannato alla sparizione. E il fatto di ricordarne così ossessivamente la decadenza, gli appare un modo sinistro di speculare sulle altrui miserie: di accelerarne la fine.
Considera Tristi Tropici un’opera di corruzione del lavoro dell’etnografo. Resta colpito dalle considerazioni che Baudelaire svolge sull'impressionismo e Manet in particolare. E le adatta alle proprie convinzioni.
Non è che gli impressionisti non sapessero dipingere, ma essi cercavano l'illusione di un'arte spontanea. La stessa illusione è convinto che si celi nella sua narrazione: ciò che vede è davvero dettato dallo sguardo dello scienziato o è puro colore di superficie?
Si è presi da una certa spossatezza nella prolungata lettura di Tristi tropici. Il lettore è sopraffatto dalla lussureggiante messe di dettagli, dalle esperienza improvvise, dalle imprevedibili deviazioni sull'India e le caste, sul buddhismo e l’islam. Ma ad uno sguardo più attento si avverte che sotto quel caos di emozioni e di avventure regna un ordine nascosto, un sapere che fa appello alle semplici regole dello strutturalismo.
Nonostante ciò egli considera Tristi tropici un libro impudente, scritto più con le passioni del cuore che con quelle della mente. Alla fine del libro ci si imbatte nell’omaggio a Rousseau che egli considera il più etnologo tra i filosofi. Frainteso, dileggiato, disprezzato, Rousseau è stato il modo in cui l'Occidente ha provato a leggere e capire il cuore dell'altro senza oltraggiarlo. Naturalmente, per il ginevrino quel cuore era la prova che l'Occidente si sarebbe potuto salvare solo a patto di lasciarselo trapiantare. Una tale prospettiva non era priva di equivoci e pericoli. Ovvero di tentazioni totalitarie, nate nel nome di una civiltà interamente trasparente.
Può mai esistere una società perfetta? Qui le strade di Rousseau e Lévi-Strauss divergono. Le culture, le civiltà, i mondi religiosi si possono confrontare ma non sovrapporre, men che meno sommare. Nessuna società agli occhi del grande antropologo è interamente bene o male. Possiamo prendere degli aspetti, amarne alcuni e detestarne altri. Non possiamo realizzarne una sintesi. Possiamo solo renderci conto della loro intrinseca caducità. Tristi tropici è soprattutto un grande libro sulla desolazione umana.
Colpiva a tal proposito un giudizio del filosofo Emmanuel Lévinas che per definire l'ateismo moderno si richiama al capolavoro levistraussiano: «L'ateismo moderno», scrive Lévinas, «non è la negazione di Dio, è l'indifferentismo assoluto di Tristi tropici. Penso che sia il libro più ateo che sia stato scritto nei nostri tempi, il libro più disorientato e disorientante». Che cos'è che colpiva in maniera così acuta il filosofo francese? Credo la mancanza di senso - sia della storia, sia del soggetto che in teoria dovrebbe esserne il portatore - che circola in Tristi tropici. Non a caso l'opera fu letta anche come un attacco all'esistenzialismo e in particolare a Jean Paul Sartre.
«Il mondo», si legge alla fine di Tristi tropici - «è cominciato senza l'uomo e finirà senza di lui». Siamo i privilegiati del pianeta. Solo perché l'arroganza, la forza, il gusto estremo della competizione ci hanno collocato in quel posto che ci illudiamo di poter difendere con lo scudo e la lancia della volontà di potenza.
Abbiamo detronizzato la natura, e le sue componenti. Costruito città e imperi. Viviamo in società sempre più complesse, sorrette da equilibri precari. «Quanto alle creazioni dello spirito umano, il loro senso non esiste che in rapporto all'uomo e si confonderanno nel disordine quando egli sarà scomparso».
Dopotutto Lévinas non aveva torto nel cogliere la profonda e disorientante visione che Lévi Strauss coltiva della vita umana. Una visione che non ci appaga né ci consola. Ci fa sentire impotenti.
Ed è la medesima frustrazione provata nell'assistere alla caduta di King Kong dall'Empire State Building. Nella foresta ipermoderna di Manhattan non c'era più spazio per la natura e per il sacro. Tristi tropici ci racconta la stessa lancinante estromissione. Le nostre vite artificiali che Rousseau detestava in maniera profonda, immaginando improbabili alternative, Lévi-Strauss le coglie come il destino più intimo (...)
Il grande antropologo compie cent’anni il 28 novembre
UN POMERIGGIO CON IL PROFESSORE
di Bernardo Valli, repubblica 21 novembre 2008
Prima di raggiungere l'appartamento del Sedicesimo Arrondissement, a due passi dalla Senna e dalla Maison de la Radio, sfogliai Tristi Tropici, e ne rilessi alcuni passaggi. Non avevo detto a Claude Lévi-Strauss il motivo dell'incontro. Né lui si era dimostrato curioso. Era un puntuale collaboratore di Repubblica (era stato Pietro Citati a convincere lui e il medievalista Georges Duby a scrivere per le nostre pagine culturali), e con la redazione parigina, che faceva da tramite, aveva ormai un rapporto se non assiduo garbato. È dunque approfittando di questo modesto legame che quel giorno di dicembre andai a casa di Lévi-Strauss armato di numerose e ambiziose intenzioni.
Avrei voluto anzitutto che mi parlasse del romanzo che aveva cominciato a scrivere a Parigi, di ritorno dal Brasile nei mesi precedenti alla guerra del '39. Romanzo che avrebbe probabilmente avuto come titolo Tristi Tropici, lo stesso adottato quindici anni dopo per il saggio, in cui la magia della scrittura fa dimenticare facilmente che non si tratta di una fiction. Nelle prime pagine del romanzo abbandonato figurava la descrizione del tramonto («... ces cataclysmes surnaturels...») osservato dal ponte della nave diretta nell'America del Sud, descrizione poi recuperata, insieme al titolo, nel saggio pubblicato nel `55. Lévi-Strauss trovò che le prime pagine del romanzo erano «un pessimo Conrad» e abbandonò per sempre l'idea di lanciarsi nella narrativa pura. La trama immaginata e gettata nel cestino era la vicenda di un viaggiatore che in Oceania usa un grammofono per ingannare gli indigeni e farsi passare per un dio. Mi sarebbe piaciuto descrivere il «mancato Conrad» diventato uno dei grandi intellettuali del secolo. La prima domanda che mi proponevo di rivolgergli era dunque già pronta: «A trent'anni lei voleva usare i suoi viaggi tra gli indiani kaingang, caduveo e boroboro, come Conrad usò i suoi viaggi di mare nei romanzi? In questo caso, se avesse avuto successo come romanziere, il suo destino sarebbe radicalmente cambiato?». Mi affascinava appunto l'idea del mancato romanziere che per ripiego si dedica interamente all'etnologia, sia pur scrivendo, per nostra fortuna, anche di musica, di pittura, oltre che di letteratura. Qualche volta di poesia. Un Lévi-Strauss che ha rinunciato a inventare trame esotiche, ritenendo di non avere un talento adeguato, e che ha invece raccontato scientificamente civiltà «selvagge», traendone una morale irrinunciabile. Morale secondo la quale una società educata non può essere scusata per il solo crimine veramente inespiabile dell'uomo: peccato che consiste «nel credersi durevolmente o temporaneamente superiore e nel trattare degli uomini come oggetti: in nome della razza, della cultura, della conquista, della missione o semplicemente dell'espediente».
La mia ambizione si è sgonfiata in pochi secondi quando mi sono trovato davanti Lévi-Strauss, più che novantenne, ironico, forse divertito, del mio iniziale, prolungato silenzio, durante il quale valutavo l'opportunità di affrontare un tema tanto remoto e intimo. In definitiva gonfiato dalla mia immaginazione. Lasciai dunque cadere, saggiamente, il tema del mancato Conrad, e scivolai nel contrario: cioè nella stretta banale attualità.
Gli chiesi cosa pensasse della moneta unica europea che in quei giorni entrava o stava entrando in servizio. Rise. «Cosa c'entra un antropologo? Non sarebbe stato meglio rivolgersi a uno storico? Io mi occupo di selvaggi», si schernì. Per difendermi ricordai un vecchio testo di Merleau-Ponty, il filosofo amico di Lévi-Strauss, scritto in occasione della nomina di quest'ultimo al Collège de France. In quel testo si parlava di un'opera fondamentale per l'antropologia sociale: Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, di Marcel Mauss. Il tema ricorre ovviamente nelle opere di Lévi-Strauss. Perché non recuperare l'argomento e allacciarlo alla vita d'oggi?
Alla mia candida, ingenua reazione il padrone di casa venne in mio soccorso. Mi disse:
«Allo scoppio della guerra, nel ' 14, avevo sei anni e andai in banca a offrire le monetine che possedevo per la difesa della patria. I franchi erano allora d'oro». Per lui la svolta nel rapporto col denaro è avvenuta quando si è passati dalle monete metalliche a quelle di carta. Quella è stata la vera rottura. Quanto a una moneta indipendente dai governi nazionali, era a suo avviso una fortuna. Può darsi che tutto finisca in un disastro, ma non sarà un disastro peggiore di quello provocato puntualmente dai politici sul piano monetario.
«Vede - aggiunse - il mestiere di etnologo mi ha insegnato progressivamente a pensare non in termini di decenni, e neppure di secoli, ma di millenni, anzi di decine di millenni, dunque quando parlo di questo secolo penso che tra due o tremila anni non se ne saprà più nulla. Immagini tra venti o trentamila. Pensiamo a tante cose come importanti ma se le collochiamo nel tempo scompaiono. Ciò non toglie che mi interessino».
Gli chiesi allora cosa era stato fatto, ad esempio, di tanto importante decine di migliaia di anni fa da esserlo ancora oggi. Disse: «Certamente l'invenzione del vasellame, della ciotola per prima, e del tessuto che usiamo ancora. Sono cose più importanti di quelle che si scoprono adesso e di cui non sappiamo se resteranno tali, cioè importanti, nei millenni a venire». Neppure la bomba atomica con la quale l'uomo ha costruito qualcosa che può distruggere l'umanità? «Non sono sicuro che sia vero. Anche se si fanno esplodere tante atomiche insieme non sono certo che si distruggerebbe l'umanità intera». Non resteranno neppure le scoperte nella genetica? «Si, penso che resteranno. Ma via via che si faranno delle scoperte ci si accorgerà che è molto più complicato di quel che si immaginava. Il mondo, la vita sono assai più misteriosi oggi di quanto lo fossero uno o due secoli fa. Perché allora si pensava che fossero semplici».
E la cosiddetta globalizzazione, che rimpicciolisce il mondo, sul piano economico e su quello dell'informazione, diventata simultanea sull'intero pianeta?
«Non è una cosa che mi rallegra - mi disse Lévi-Strauss -. Penso che le differenze siano più interessanti. Quando era tutto molto diverso, il cinese poteva aspettarsi molte cose da noi, e noi da lui. Adesso che siamo quasi uguali possiamo aspettarci molto poco uno dall'altro. Immagino che tante differenze riaffioreranno. Presto».
Il mondo rimpicciolito dalla velocità delle comunicazioni, dei trasporti, ha ucciso, per lui, anche il viaggio esotico, come esisteva un tempo. Era già minacciato al tempo di Tristi Tropici.
UNA RIVOLUZIONARIA IDEA DI UOMO
di Marino Niola, Repubblica 21 novembre 2008
... a quei filosofi che lo accusano di avere abolito il significato dei miti e di averne ridotto lo studio a sintassi di un discorso che non dice niente, Lévi-Strauss, nelle ultime pagine de L'uomo nudo, riserva una risposta a dir poco tranchante. Le mitologie, egli afferma, non nascondono nessuna verità metafisica né ideologica ma in compenso ci insegnano, per un verso, molte cose sulle società che le tramandano e per l'altro verso ci offrono l'accesso a certe modalità operative dello spirito così stabili nel tempo e ricorrenti nello spazio da poterle considerare basilari. E conclude con una suprema sprezzatura: «lungi dall'averne abolito il senso, la mia analisi dei miti di un pugno di tribù americane ne ha tratto più significato di quanto se ne trovi nelle banalità e nei luoghi comuni a cui si riducono, da circa duemilacinquecento anni, le riflessioni dei filosofi sulla mitologia, a eccezione di quelle di Plutarco».
Molti hanno rimproverato allo strutturalismo un atteggiamento antistorico, ma in realtà LéviStrauss ha sempre tenuto a distinguere nettamente la storia, alla quale attribuisce un'importanza straordinaria, dalla filosofia della storia “à la Sartre”, una pseudo-storia che, in ogni sua versione, laica o confessionale, evoluzionista o storicista, costituisce un tentativo di sopprimere i problemi posti dalla diversità delle culture pur fingendo di riconoscerli in pieno. Tale filosofia della storia - che appare a Lévi-Strauss della medesima natura del mito - deriva dalla fede biblica in un compimento futuro e finisce con la secolarizzazione del suo modello escatologico che si muta in teoria del progresso. Il vizio costitutivo di tale filosofia, che rivolge verso il futuro il concetto classico di istorein e trasforma il racconto del passato in previsione del futuro, un futuro oggetto di un'attesa fideistica. In questo senso Lévi-Strauss non si limita a respingere l'accusa di antistoricismo ma, quel che più conta, rivendica all'antropologia un modo tutto proprio di interrogare i materiali storici, con quell'attenzione ai fatti minuti della vita quotidiana che fa degli etnologi gli «straccivendoli» della storia, quelli che rimestano nelle sue pattumiere.
E una vera e propria eterologia quella messa in opera da Claude Lévi-Strauss, in grado di farci cogliere quanto di noi stessi c'è nell'altro e quanto di altro si trova in fondo a noi stessi. Quel fondo che ci fa tutti parenti perché tutti differenti e che qualcuno continua a chiamare umanità.
Sul Venerdì di Repubblica 4.7.2008 trovo un servizio sul “furto di semi e piante in Brasile” dove si riporta la storia di Henry Wickham, un inglese che prese settantamila semi di caucciù e li portò nella colonia malese, dove la pianta crebbe molto bene. Era il 1876, Manaus era in pieno rigoglio ma da questo punto cominciò il suo declino, anche per la deforestazione. Wickham fu fatto sir, e oggi il Brasile importa caucciù dalla Malesia. L’articolo, a firma Alberto Riva, dice che con le leggi attuali il comportamento di Wickham sarebbe perseguibile.

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