venerdì 25 novembre 2011

Wim Wenders ( I )

Ho incontrato Wim Wenders con “Nel corso del tempo”, tanti anni fa in un cinema di Milano, ed è stata una vera emozione. Non credevo che si potessero fare film così, soprattutto in Europa, soprattutto da un tedesco...Lì per lì ho capito due cose: che se avessi fatto cinema sarei stato Wim Wenders, e che – dato che esisteva già Wim Wenders – non era assolutamente necessario che io facessi cinema. Del resto, ero già troppo vecchio e assolutamente estraneo al mondo dello spettacolo, quando mai si è visto un operaio di 25-27 anni che inizia a fare cinema?
L’emozione era destinata a ripetersi qualche anno dopo, con “Il cielo sopra Berlino”: visto al cinema President di Milano, che oggi non c’è più. Spero che qualcuno se lo ricordi: un cinema magnifico, sedili comodissimi, immersione completa nel film.Anche questo faceva parte dell’emozione, non sono sicuro che chi vede “Il cielo sopra Berlino” oggi, in dvd, capisca anche solo in parte cosa significava quell’enorme volo dell’angelo, proprio all’inizio; e il volo sopra Berlino, l’immersione nella città e nelle persone che ci vivono, e il primo passaggio dal bianco e nero al colore, cose mai viste.
Wenders ricorda spesso, così come Herzog, che il cinema tedesco praticamente non esisteva più: azzerato dalla follia hitleriana, sopravviveva con qualche autore apprezzabile ma purtroppo marginale. Bisognava tornare a Lang, a Murnau, per avere un regista tedesco conosciuto e ammirato. Wenders, Herzog e gli altri registi giovani degli anni ’70 operarono questo miracolo: ricordo anch’io lo stupore davanti a “Nel corso del tempo”, un film tedesco che più tedesco non si può, eppure girato come se fosse l’America...Anche questa, una cosa mai vista prima.
In seguito, ho visto tutti i film di Wenders per una ventina d’anni. Poi, ad un certo punto, mi sono fermato; e oggi sono ormai lontanissimo da Wenders, il suo cinema non lo sento più mio almeno da “Lisbon Story”, che per me è l’ultimo suo film veramente felice e riuscito.
Le ragioni di tutto questo sono molteplici: innanzitutto, si cambia. Io non sono più tanto giovane, e questo vale ovviamente per Wenders, che ha una quindicina di anni più di me. Ma questi sono discorsi banali e abbastanza inutili: i film di Wenders sono ancora ben fatti e pieni di cose interessanti, ma sempre più distanti da me, così come quelli di Herzog. Non l’avrei mai creduto, ma così è andata: e il fatto che oggi sia Herzog che Wenders si siano lasciati attrarre dalla finta novità del tridimensionale mi lascia molto perplesso.
I film di Wim Wenders li ho portati qui tutti, uno alla volta e in ordine cronologico, appunto fino a “Lisbon Story”. Qualcosa manca, soprattutto i primissimi, ma si tratta di film molto brevi, spezzoni inseriti in altri film, eccetera. La filmografia viene da http://www.wikipedia.it/
* Scenari (Schauplätze), cortometraggio (1967)
* Lo stesso giocatore spara di nuovo (Same Player Shoots Again), cortometraggio (1968)
* Ciak film (Klappenfilm), coregia di Gerhard Theuring, cortometraggio (1968)
* Victor I, cortometraggio (1968)
* Film sulla polizia (Polizeifilm), cortometraggio per la TV (1969)
* Tre LP americani (Drei Amerikanische LP's), cortometraggio per la TV (1969)
* Estate in città (Summer in the city) (1970)
* Prima del calcio di rigore (Die Angst des Tormanns beim Elfmeter) (1972)
* La lettera scarlatta (Der Scharlachrote Buchstabe) (1973)
* Alice nelle città (Alice in den Städten) (1973)
* Falso movimento (Falsche Bewegung) (1975)
* Nel corso del tempo (Im Lauf der Zeit) (1976)
* L'amico americano (Der amerikanische Freund) (1977)
* Lampi sull'acqua - Nick's movie (Lighting over water) (1980)
* Hammett (1982)
* Chambre 666, mediometraggio per la TV (1982)
* Lo stato delle cose (Der Stand der Dinge) (1982)
* Paris, Texas (1984)
* Reverse Angle, cortometraggio per la TV (1985)
* Tokyo-Ga (1985)
* Il cielo sopra Berlino (Der Himmel über Berlin) (1987)
* Appunti di viaggio su moda e città, doc. sul sarto Yamamoto (1989)
* Fino alla fine del mondo (Bis ans Ende der Welt) (1991)
* Così lontano, così vicino (In weiter Ferne, so nah!) (1993)
* Arisha (Arisha, der Bär und der steinerne Ring) (1993)
* Al di là delle nuvole, coregia con Michelangelo Antonioni, (1994)
* I fratelli Skladanowsky (Die Gebrüder Skladanowsky) (1994-96)
* Lisbon story (1994)
Per completare la lista servirebbe a mio parere questo:
La donna mancina (regia di Peter Handke, 1978)
Ho visto solo i 40’ finali, grazie ai soliti salti d’orario di Raitre. Questo è davvero un film di Handke, che conferma quanto dicevo del “Calcio di rigore”. Non ho mai amato Handke, e i suoi dialoghi sono sempre inutilmente lunghi. Bello il dialogo tra Bernhard Minetti e R.Vogler: «(...) lei non si dà completamente... si conceda di più, deve ancora dare il meglio di se stesso... sarei felice di vederla invecchiare sullo schermo. (...)» In effetti, la “luce” a questo film viene proprio dagli attori, come Bruno Ganz che qui “prova” il suo futuro angelo. (29.12.1997)
(le immagini vengono tutte da "Nel corso del tempo" di Wim Wenders)
(continua)

Wim Wenders ( II )

Questa invece è la lista dei film girati da Wenders dopo “Lisbon Story”, sempre da http://www.wikipedia.it/ :
* Crimini invisibili (The End of Violence) (1997)
* Buena Vista Social Club, documentario, (1999)
* The Million Dollar Hotel (2000)
* Viel passiert, documentario (2002)
* Ten Minutes Older: The Trumpet, episodio Twelve Miles to Trona (2002)
* L'anima di un uomo (The Soul of a Man), documentario, (2003)
* La terra dell'abbondanza (Land of Plenty) (2004)
* Musica Cubana, seguito di Buena Vista Social Club (2004)
* Non bussare alla mia porta (Don't Come Knocking) (2005)
* Chacun son cinéma (2007), episodio War in Peace
* Invisibles, episodio Invisibles Crimes (2007)
* Palermo Shooting (2008)
* Il Volo, cortometraggio (2009).
* If Buildings Could Talk, cortometraggio 3D (2010)
* Pina, lungometraggio in 3D sul teatrodanza di Pina Bausch (2011)
The end of violence (Crimini invisibili) 1997
Nel 1998, all’uscita dal cinema, ne scrivevo così: E’ un film meno riuscito rispetto ad altri, ma c’è troppa superficialità e faciloneria nei giudizi della critica. la violenza incombente, che qui addirittura “piove” dall’alto, via satellite, è davvero il problema, e Wenders somiglia molto all’ultimo Fellini nell’osservare il presente e nel fotografarlo, e nel proiettarci davanti un futuro assai inquietante. Il timore di una corsa verso il brutto (vedi Ginger e Fred) e verso il peggio: e il messaggio che arriva “dal cielo” al gangster-rapper forse non servirà, ma la domanda è stata posta, e forse qualcosa si muove.
Sembra che Wenders abbia realizzato tre film di transito – i suoi ultimi – in attesa di una formulazione definitiva, un punto d’arrivo, come furono Nel corso del tempo, Il cielo sopra Berlino, e anche Paris Texas. In fiduciosa attesa, mi segno: 1) Bill Pullman è molto anonimo. 2) Andie Mc Dowell è bellissima, piena e muscolosa, sembra un po’ S. (silvia?). 3) Molto bella e molto brava anche Traci Lind. 4) Gabriel Byrne al solito molto serio e molto in parte, somiglia un po’ ad Al Pacino. 5) Samuel Fuller, che qui fa il padre di Byrne, l’astronomo FBI 6) Wenders si appassiona alle “storie alla Hammett”, ma non è che gli vengano tanto bene. 7) Degno di Kafka il dialogo fra i due killer davanti a Bill Pullman. 8) Molto bello, come in Fino alla fine del mondo, l’uso delle tecnologie computerizzate (giugno 1998)
Visto da oggi, è proprio la parte dedicata alle nuove tecnologie quella più invecchiata (era inevitabile, del resto).
Il film fu preceduto da molte polemiche, perché Wenders disse in varie occasioni che non sopportava più la violenza al cinema. Sono dichiarazioni ancora oggi interessanti, ma ormai superate dai fatti, dai videogiochi sempre più violenti e dalla cronaca quotidiana, come quella del giovane nazista norvegese Breivik (più di ottanta morti sulla coscienza) e di altre simili sette di destra, ultima una scoperta in Austria di recente, responsabili di una lunga serie di efferati omicidi “rituali”.
Per dare una piccola idea delle dichiarazioni sul film di Wenders, riporto tre brevi ritagli dai giornali dell’epoca.
«...in generale, consideriamo la violenza al cinema un fatto scontato, ma nessuno ha mai pensato “e se non ci fosse?”. Ecco, il mio film vuole insinuare questo piccolo dubbio: cosa succederebbe se non ne vedessimo neppure un pochino?» Wenders per “The end of violence” cds 4.1.1997 (Dario “De Paura” Argento risponde e dice che non è d’accordo: ovvio, lui con la violenza ce campa...)
«...il rap oggi è una delle manifestazioni più forti della violenza in musica. Avevo contattato il rapper Tupac Shakur (per il film), purtroppo è stato ucciso.» Wenders a Cannes per “The end of violence” cds 12.5.1997
Quando Wenders ha visto “Funny games” dell’austriaco Michael Haneke, l’anno scorso al Festival di Cannes, dopo meno di mezzora si è alzato e se ne è andato. Ha lasciato la sala e ha spiegato perchè: «Questo film è come un incubo. Se ho un incubo, io cerco di svegliarmi, mi alzo: so che riaddormentandomi subito ripiomberei nell’incubo. Uscendo, ho voluto sottrarmi all’incubo.» (da L'espresso 25.06.1998)
Lietta Tornabuoni; che per il film citato dice che “non è né bello né brutto, ma ha un’efficacia terribile: con mezzi di grande semplicità terrorizza più di qualsiasi horror”. E’ un film su una banda di ragazzi violenti e spietati, che assalgono ville, uccidono, senza spiegazioni. “...è atroce, anche perchè ciascuno può pensare che quanto accade alla ricca famigliola potrebbe benissimo capitare anche a lui, anche domani”. Secondo Wenders, non serve la censura, inutile e controproducente; sono gli spettatori che dovrebbero boicottare questi film. (L'espresso, come sopra, 25.6.1998)
Buena Vista Social Club (1999)
Di questo film non so che farmene. Non è per me: è un onesto documentario, girato con mestiere dal mio regista preferito (Wim Wenders, illustre e giovine pensionato). Ma, per me, è come vedere un documentario su Nilla Pizzi e Gorni Kramer: sì, piacevole, ma insomma... (Mi segno il Laud, liuto cubano di derivazione araba) (luglio 2001)
Million dollar hotel (1999)
Wenders c’è, e lo si vede fin dalla sequenza iniziale. Dovrebbe però trovare qualcuno che gli scriva i film, perchè questo qui è una rifrittura di cose già viste (su tutte, “Hammett” di Wenders...). Il film è godibile, si regge anche sulla storia, ma soprattutto sullo stile di Wenders e sulla recitazione degli attori, in parte e ben scelti: su tutti Jeremy Davies (tra Jim Carrey e Johnny Depp), e un ottimo Mel Gibson, “finto Frankenstein”; in più c’è Milla Jovovic, sulla quale ho però molte riserve come attrice. Delle musiche non mi sento partecipe, però si lasciano ascoltare. Molto bravi tutti i comprimari. (“Isy voleva conservare i suoi pensieri anche dopo morto, così ha scelto la mia testa per tenerceli dentro, ecco perché mi aveva scelto per amico”, dice Tomtom.)  (aprile 2000, visto al cinema)
(continua)

Wim Wenders ( III )

La terra dell’abbondanza (2004)
E’ un bel film, di linea chiara e di bella ispirazione. Dubito che il suo messaggio politico, chiaro e ben espresso, serva a qualcosa: a destra non guarderanno mai questo film, e se lo guarderanno sarà per dirne male, per dire che sono tutte fesserie, eccetera. Però rimane un bel film: non all’altezza del giovane Wenders, ma nettamente migliore di Million dollar hotel, al quale ci sono molti rimandi, e mai banali. Insomma, forse Wenders si sta ritrovando, e ci sono ragionevoli speranze di vedere ancora capolavori fatti da lui. (settembre 2004, al cinema)
“La terra dell’abbondanza”, il nuovo film di Wim Wenders
WENDERS È VIVO E LOTTA INSIEME A NOI
di lorenzo majello, repubblica-musica, settembre 2004
Se cercate un film che racconti in maniera notevole e originale l'America post 11 settembre, non perdete La terra dell’Abbondanza, oggi in concorso a Venezia e da domani nelle sale. Certo, la terra dell'abbondanza (dal titolo di una canzone di Leonard Cohen presente nel film, Land Of Plenty), ma anche una terra che abbonda di diseredati ed angosce.  Lei ha 20 anni, è pacifista e aiuta gli homeless di Los Angeles downtown. Lui ne ha 60, è un reduce del Vietnam e pattuglia Los Angeles a caccia di terroristi. Lei pensa che «i tremila delle torri gemelle non vorrebbero che altri fossero uccisi in quel modo». Lui pensa che in Vietnam «abbiamo vinto perché abbiamo bloccato la diffusione dei comunismo per diecimila giorni» e si rammarica di non essere stato su uno di quei quattro aerei perché «... prova a puntarlo a me un taglierino».  Lei non ha il telefonino. Lui ha l'inno americano come suoneria. Lei è attratta da tutti gli emarginati ed è tremendamente ingenua. Lui è ossessionato da tutti gli Arabi ed è totalmente paranoico. Ma lui è suo zio e lei è tornata dalla Palestina per incontrarlo, E tutti e due si occupano troppo degli altri e poco di se stessi.  Insieme, tra mille incomprensioni, attraverseranno il paese da Los Angeles a Ground Zero annusandosi e cercando di capirsi. Alla fine forse riusciranno ad ascoltarsi e imparare qualcosa l'uno dall'altra. Lei il coraggio, lui l'umanità.  20 anni dopo Paris Texas, Wenders torna sulla strada per raccontare un'America ferita e la va a cercare tra le pieghe, dietro agli angoli, nei coni d'ombra che Hollywood non illumina. Con un messaggio decisamente pacifista, ma anche una profonda umanità per il personaggio meno simpatico e spesso ridicolo (lo zio).  Inquadrature mai banali, primissimi piani a raffica e macchina da presa in continuo movimento. A voler cercare dei difetti, un finalone forse un po' retorico, al limite della crisi mistica e i diseredati che sono tutti buonissimi, con dei sorrisi meravigliosi e sempre solidali tra loro. Ma francamente negli ultimi tempi si poteva pensare che Wenders fosse uno di quei grandi innovatori che non avevano più niente da dire. Ebbene, questo film dimostra tutto il contrario.
Non bussare alla mia porta (Don’t come knocking, 2005)
Mi ha fatto tristezza vederlo: non perché sia brutto, ma perché sembra il film di un imitatore di Wenders. In particolare, anche per la presenza di Sam Shepard, sembra un remake di “Paris Texas”. Gli ampi spazi, il deserto, le città americane di provincia, il mito del western, e Tim Roth, abbastanza somigliante, come remake del personaggio di Philip Winter che fu per molti film di Rüdiger Vogler, ormai troppo vecchio per quella parte. Così risulta in parte sprecata una magnifica Jessica Lange, attrice grandissima, e si scopre che passa molta differenza (come attore) fra Sam Shepard e H.D.Stanton (il riferimento è sempre a “Paris Texas”). Trovo sprecata anche Sarah Polley, in viaggio con l’urna delle ceneri: ormai un “must” dopo “Il grande Lebowski”, “Chocolat” con la Binoche, Fellini all’isola di Erimo per “E la nave va”, e altri ancora. Altri attori: Fairuza Balk, Gabriel Mann, Eva Marie Saint: due ruoli solo abbozzati e la riapparizione in grande stile di un’ottima attrice dei tempi di Hitchcock. Sembrano un remake anche le musiche, le canzoni, le luci... Anni fa, Ingmar Bergman scrisse che sarebbe stato triste per Bergman rifare Bergman, o per Tarkovskij rifare Tarkovskij: con loro non è successo, con Wenders e con Herzog purtroppo sì. (maggio 2008)
- Parliamo d’amicizia. Quella con Wenders, per esempio.
- Grandi affinità e grandi diversità: io emotivo e instabile, lui stoico e intelligente. Per scrivere “Don’t come knocking” ci sono voluti tre anni e mezzo. In alcuni periodi ci siamo rifugiati in un mio piccolo ranch senza elettricità e acqua potabile, io con la mia macchina da scrivere, lui con il computer agganciato al satellitare, internet e le sue irrinunciabili tecnologie. Abbiamo scritto tutto scena per scena, come per “Paris Texas”. (...) Ci unisce una grande passione per la musica, per il blues. (...)
Sam Shepard su Wim Wenders, dal Venerdì di Repubblica 24.06.2008
(continua)

Wim Wenders ( IV )

Gli spot di Wenders
Wenders ha girato anche degli spot pubblicitari: qui da noi, ricordo quelli per la Ariston (elettrodomestici, lavatrici e lavastoviglie). Nel 1995 li avevo commentati così: «Gli spot di Wenders per la Ariston sono veramente brutti, e anche sciocchini e un po’ anonimi. Spero che almeno l’abbiano pagato bene...»
La realtà era diversa, e rileggendo oggi questo frammento di intervista mi sono trovato a sospirare profondamente: girare quegli spot ha cambiato il modo di fare cinema di Wenders, e non solo il suo. Metterei attenzione a quello che dice Wenders verso la fine di questo frammento: «...la tv, che della pubblicità ha bisogno per autofinanziarsi,». Nel 1995, data dell’intervista, esisteva ancora la tv, esisteva ancora il cinema: oggi la pubblicità è padrona della tv, e anche del cinema e della musica. Si fa tutto in funzione della pubblicità, e solo di quella. Sono arrivati anche altri padroni: prima i viedogames, adesso lo smartphone. Il futuro è proprio questo, uno schermo di pochi centimetri di lato: niente a che vedere con “Nel corso del tempo” e con “Paris Texas”, né tantomeno con “Il cielo sopra Berlino”.
Wenders non è un gran consumatore di pubblicità. A Berlino praticamente non guarda mai la tv, “ma quando sono chiuso in albergo, all’estero, la tv diventa una compagna preziosa. E dopo ogni mio film, almeno a partire da Paris Texas, mi accorgevo che i pubblicitari si appropriavano di scene e idee per metterle nei loro spot. Quella marca di jeans che ha utilizzato l’idea della trapezista era vicina al plagio, tra me e me pensavo che avrrei potuto fare di meglio, ma tutto si fermava lì. (....) La differenza tra cinema e pubblicità è tutta nel rigore narrativo a cui ti costringe. Non puoi farti prendere dalla bellezza di una scena e farla durare quanto ti piace, come mi succede spesso durante le riprese dei miei film. La pubblicità è una disciplina rigorosa, che ti obbliga ad essere inflessibile coi tempi. Non si può sforare: trenta secondi devono essere, e trenta secondi saranno. Per me è quasi una novità, e spero che mi aiuti anche nelle mie prossime produzioni cinematografiche. Io sono tendenzialmente piuttosto conciliante con le lungaggini. (...) Ci sono certi film e certe fasce di programmazione che non sopportano le interruzioni pubblicitarie, ma altri film e altre fasce possono accettarle. E poi proprio la tv, che della pubblicità ha bisogno per autofinanziarsi, ha permesso negli ultimi vent’anni a noi registi europei di dirigere i film che avevamo voglia di fare, me compreso. Non sarei capace di dire che accettare di girare uno spot vuol dire uccidere il cinema, forse è vero il contrario.»
Wim Wenders a Paolo Mereghetti cds7 luglio 1995
Wenders e Hopper
“Wim Wenders, quando girò Paris Texas, doveva essere passato molte volte dinanzi alle tele di Hopper. Le sue desolate stazioni di benzina (Gas, 1940), i motel (Fair Lane Road, 1956) hanno una cifra visiva di questo spessore. Il cinema americano, Hitchcock su tutti, ha attinto a piene mani da questo eccezionale repertorio iconografico (...)”
Cesare De Seta per la mostra su Hopper e Wenders (e Easy rider), cds 10.10.1005
Spike Lee su Wenders, a Cannes (da Repubblica 16 maggio 1991):
«Mi piace Roman Polanski come presidente della giuria, e poi mi basta che non ci sia più Wim Wenders. Quando due anni fa ignorò completamente “Fa’ la cosa giusta” ci rimasi davvero male. Non me la presi con Soderbergh, (vincitore della Palma d’Oro con Sesso bugie e videotapes), che è un mio amico e che aveva fatto un buon film. Ma quel tedesco mi sembrò davvero odioso, se me lo fossi trovato davanti l’avrei preso a pugni. »
«C’è sempre qualcuno che ha bisogno di aiuto, nei film di Wenders. Chiamato dalla cartolina di un amico, Rüdiger Vogler...»  (Enzo Natta, famiglia cristiana n.16, anno 1995)

- (...) Non è detto che tutto quello che si fa o si vede o si pensa debba finire necessariamente in un film; è invece vero il contrario, almeno per me. Per fare un film ho bisogno di avere davanti in territorio sconosciuto, una zona d’ombra, fisica o mentale non importa, da conquistare, da scoprire. (...)
- In passato lei si è definito un regista di sinistra. Significa ancora qualcosa per lei, oggi, la parola “sinistra”?
- Dopo la catastrofe che ha coinvolto i Paesi dell’Est e dopo la caduta del Muro, è difficile persino arrivare a una definizione di “sinistra”. Oggi preferisco dirmi molto di più un regista cristiano. Non però come lo intenderebbe la Chiesa di Roma: mi sento cristiano in senso evangelico, e in questo modo le mie idee e i miei valori tornano ad assomigliare alle idee socialiste che avevo in passato. (...)
- ...lei è stato educato in una famiglia cattolica.
- Per questo, nel 1968 mi sono “scattolicizzato”. Ho sottoscritto persino un atto formale: allora era di moda. Invece, non ho fatto niente di ufficiale per notificare la mia adesione al protestantesimo. E’ un fatto personale, e vivere la mia religiosità in privato mi sembra il modo migliore per dimostrare la mia fede.
- Wim Wenders prega?
- Ogni giorno.
- E a chi si rivolge?
- A Dio. Credere che ci sia qualcuno che ascolta è molto importante per poter pregare. (...)
- In uno dei suoi primi film, “Nel corso del tempo”, c’era questa battuta: «E’ meglio che non esista più alcun cinema piuttosto che un cinema come quello attuale.». Trent’anni dopo, cosa ne pensa?
- Non la scriverei più. Allora ero convinto che il cinema stesse per morire, oggi sono certo che vivrà ancora a lungo. Ci sono gli angeli che lo proteggono.
Wenders aggiunge che si riconosce nelle posizioni del teologo Drewermann, e che va a messa ogni domenica, anche in una chiesa cattolica se non trova quella protestante, come gli è successo a Lisbona.
Wim Wenders, intervista a Paolo Mereghetti, cds marzo 1995
Se credo agli angeli? Certamente. E, prima di tutto, a quelli che si possono vedere, alle persone con il sorriso, la gentilezza e la tenerezza affettuosa degli angeli. E nello stesso tempo non credo di meno a quelli che non si possono vedere, ma solo immaginare. Gli uni e gli altri hanno qualcosa in comune: non si riesce a trovarli, bisogna farsi trovare da loro.
Wim Wenders, dal cds 7.5.1993
(l'immagine di Wenders con Curt Bois viene dagli "extra" sul dvd di "Il cielo sopra Berlino"; la foto con il dipinto di Hopper era su Repubblica; la pubblicità qui sopra sta girando in queste settimane un po' su tutti i giornali; la pubblicità del 1995 viene dal supplemento del Corriere della Sera; la foto con la Merkel e gli occhialini del 3D è purtroppo cronaca di questi giorni).

mercoledì 23 novembre 2011

The soul of a man

The soul of a man (Il blues – L’anima di un uomo, 2002) Regia di Wim Wenders. Prodotto da Martin Scorsese. Documentario sul blues. Fotografia: Lisa Rinzler Durata: 103 minuti

“The soul of a man” (il titolo è un verso di Blind Willie.Johnson) è un film di Wim Wenders del 2002, che fa parte di un ciclo di film prodotti da Martin Scorsese, sul blues e sulla sua storia. Di questo ciclo fanno parte, oltre al film di Wenders e ad altri usciti successivamente, “Dal Mali al Mississippi” di Scorsese, forse il più bello, che parte dall’Africa, passa attraverso lo schiavismo e giunge fino ai nostri giorni (la musica antica del Mali è praticamente identica al blues), “Piano blues” di Clint Eastwood, che si occupa dei grandi pianisti di jazz e blues (anche il vecchio Clint è un pianista), “Red white and blues” di Mike Figgis, che si occupa del blues inglese degli anni ’60 (cioè Mayall, Clapton, tutti i grandi cantanti e chitarristi di quegli anni). Sono film molto belli, e anche molto utili sia per gli appassionati di musica che come testi di storia recente.
Questo film di Wenders invece ha due facce: la prima, molto bella, quando mostra e fa ascoltare brani d’epoca (ricostruiti spesso con lo stile usato dallo stesso Wenders nel suo film sulla nascita del cinema “I Fratelli Skladanowski”, del 1995); la seconda, meno interessante, con l’esibizione di cantanti odierni che purtroppo non sono all’altezza dei loro modelli.
Dal confronto fra le due parti del film emerge impietoso ancora una volta il divario umano tra la generazione dei vecchi, meno belli e magari un po’ sporchi o rozzi, ma veri e vitali, e la nostra generazione, molto artificiale, attentissima ai vestiti e alle pettinature e intenta, sul piano musicale, più a regolare mixer e amplificatori che al significato di quel che si suona e si canta. Di questi ultimi, nel film di Wenders c’è un bel campionario, tra ex punk platinati e donnine afrochic; oltre all’onnipresente e ormai anziano Lou Reed, che nei film di Wenders non manca mai e che – va detto – è comunque il migliore in campo tra quelli che vediamo.
Wenders costruisce il film attorno a tre bluesmen afroamericani: Blind Willie Johnson e Skip James (anni 30) e J.B.Lenoir (anni ’60). I primi due sono interpretati da attori, data la mancanza di documenti originali d’epoca, e sono stati filmati con cineprese d’epoca, proprio come per il film sui Fratelli Skladanowski; per il terzo ci sono invece filmati autentici. Di Blind Willie Johnson ci rimangono solo le incisioni degli anni trenta; Skip James invece tornerà negli anni sessanta, dopo trent’anni di silenzio, al Festival di Newport del 1964, quando lo vediamo nel film vicino ai settant’anni ma col suo vero volto. Come dicevo, è notevole il contrasto fra la bellezza e la spontaneità dei vecchi ed il falso ben costruito della nostra età, un dato di fatto che rimanda al grande etnologo e musicologo Alan Lomax (citato nel film di Scorsese ma non in questo di Wenders) quando dice che, passata l’età della riproduzione sonora, i nostri discendenti ci disprezzeranno per aver distrutto la vera cultura del mondo. Quasi nessuno si rende conto della verità di quello che dice Lomax, e anzi si finisce sempre con l'essere presi in giro quando si tocca l’argomento. L’idea di fondo è sempre quella: che nella musica esista solo il progresso, e che quindi le ultime cose siano per forza migliori di quelle precedenti. Il che non è: va ricordato che il metro di giudizio non è e non deve essere il nostro gusto personale, né tantomeno la moda, la popolarità o il successo commerciale. (nella foto sotto, Son House accanto alla Liberty Bell).
J.B.Lenoir, bluesman degli anni ’60, è introdotto dalla canzone che gli dedicò l’inglese John Mayall (un bianco) alla notizia della sua morte, e che fa parte del disco “Crusade”: un compianto in perfetto stile blues che ho qui anch’io da decenni e del quale mi ero ormai quasi dimenticato l’esistenza, ma che ho scoperto di conoscere ancora a memoria. Wenders dice che nel 1967 fu molto colpito ascoltando Mayall, che non sapeva nulla di Lenoir (come me, del resto) e che per il film ha voluto cercare immagini inedite di Lenoir, trovandole nei filmati che due coniugi svedesi (che lo conoscevano di persona) cercarono invano di vendere alle tv dell’epoca: immagini molto belle ma con qualche difetto tecnico, un filmato a colori e uno in bianco e nero, girati nel 1964 e nel 1965; una curiosità è il clamoroso smoking zebrato con cui Lenoir appare nei filmati per la tv, ma si sa che la gente di spettacolo ha spesso di queste uscite. I due svedesi dicono che Lenoir come personaggio ricordava un po’ Martin Luther King, per il suo impegno politico; che era molto attaccato alla famiglia e aveva quattro figli, e che scrisse canzoni non solo di rhytm and blues ma anche ballate sul Vietnam e sull’attualità, compreso il razzismo e il KKK. Lenoir morì nel 1967, vittima di un incidente stradale senza testimoni, sul quale si avanza qualche legittimo sospetto. L’ultima canzone di J.B.Lenoir parla di Giona nella balena: anche il bluesman è inghiottito da una balena, ma si accorge che la balena era malata, “è per questo che mi ha preso il blues”.
Al Festival di Newport (dedicato alla musica folk) nel 1964 riappare Skip James, che era quasi sparito nel nulla dopo le leggendarie registrazioni del 1931 (cinque anni prima di quelle di Robert Johnson): diciottomila persone lo ascoltano, e la stessa cosa succederà nei due anni successivi. E’ molto malato ma suona divinamente; quando i Cream (Eric Clapton, Jack Bruce, Ginger Baker) riprendono la sua “I’m so glad” facendone un grande successo commerciale, i proventi dei diritti d’autore gli consentono di pagare le cure e l’operazione di cui aveva bisogno. I bluesmen bianchi dicono a Wenders di essersi sentiti un po’ in colpa per aver utilizzato le musiche scritte dagli afroamericani (non solo quelli che vediamo nel film di Wenders, ma anche Robert Johnson, e tanti altri), ma di essere comunque contenti perchè si sono accorti che avevano rimesso in circolazione le loro canzoni, e quindi di aver loro consentito di guadagnare con i diritti d’autore, cosa che negli anni ’30 non sarebbe stata possibile. Bisognerà anche ricordare che il sistema sanitario americano, che qualcuno sta tentando di importare anche qui da noi, è sempre stato spietato: chi non ha i soldi non viene curato. Dopo l’operazione Skip James si riprende, e incide altre canzoni; morirà nel 1969. A Newport lo vediamo suonare e cantare con Mississippi John Hurt, con Son House e con Bukka White (1964-66).
In definitiva, “The soul of a man” è un buon film, peccato solo per l’inizio in stile “Ai confini della realtà”: il pretesto è un disco di Blind Willie Johnson (che era anche predicatore religioso) che sta infatti viaggiando negli spazi siderali, dentro una sonda Voyager. Chissà se qualcuno, su qualche pianeta sconosciuto, riuscirà mai a capire di cosa si tratta.
Le canzoni che si ascoltano nel film, prese da www.imdb.com :
- Blind Willie Johnson:
"Dark Was The Night", "Soul Of A Man"
- Skip James:
"Devil Got My Woman", "44-40 Blues", "Hard Time Killing Floor Blues"
- J.B. Lenoir:
"I Want To Go", "Round And Round", "Vietnam Blues", "God's Word", "The Whale Has Swallowed Me"
wikipedia aggiunge:
«Il film è narrato da Laurence Fishburne e contiene brani dei tre musicisti eseguiti da Nick Cave and the Bad Seeds, Beck, Jon Spencer Blues Explosion, James 'Blood' Ulmer, T-Bone Burnett, Eagle Eye Cherry, Shemekia Copeland, Garland Jeffreys, Alvin Youngblood Hart, Los Lobos, Bonnie Raitt, Lou Reed, Marc Ribot, Lucinda Williams e Cassandra Wilson.»

martedì 22 novembre 2011

«My life was saved by rock'n'roll»

Wim Wenders ha sempre detto, nelle sue interviste, che la musica ha avuto un ruolo importantissimo nella sua vita. “My life was saved by rock’n’roll”, dice Wenders citando il verso di una canzone (dei Velvet Underground): nel senso che la musica, soprattutto quella americana, gli ha aperto orizzonti, culturali e geografici, altrimenti impensabili.
Quello che dice Wenders nel brano che riporto vale non solo per il rock, ma per tutte le riprese musicali. Molti concerti di musica classica, o di opera lirica, sono ripresi ancora oggi nel modo descritto da Wenders qui sotto, e cioè male. Un mio ricordo televisivo riguarda una ripresa del Te Deum di Giuseppe Verdi, una delle ultime composizioni del Maestro. Verdi scrive il pezzo quasi come un blocco unico, cantato dal coro; ma alla fine trova un effetto sonoro bellissimo, una voce solista che scende come dall’alto e che canta: “In Te, Domine, in Te speravi...”. La regia tv faceva una zoomata veloce sulla cantante, che veniva rapidamente portata in primissimo piano: e così l’effetto voluto da Verdi (la voce che scende dall’alto, da lontano) si perdeva completamente. Una cosa davvero triste, che purtroppo capita quasi sempre.
I brani che seguono sono tratti da “Stanotte vorrei parlare con l’angelo”, una raccolta curata dallo stesso Wenders nel 1988. Il libro è stato pubblicato da Ubu Libri nel 1988, e il titolo viene da una poesia di Rainer Maria Rilke. Per chi fosse interessato al tema, il libro è ricco di interventi sulla musica, così come i film di Wenders.
Quasi sempre, quando si va a vedere un film che vorrebbe offrirti un documento su un qualsiasi soggetto, si prende una fregatura. Che si tratti di gran premi automobilistici, di perversioni sessuali, di campionati mondiali di calcio o di musica pop, non si riuscirà a vedere quello che si voleva vedere, ma si riceverà al contrario una posizione sull'argomento, un modo di intendere la cosa, un'opinione. Ciò che si desiderava vedere bisognerà carpirlo faticosamente coi propri occhi, se non sarà già stato completamente guastato o sommerso dal resto.
I film musicali sembrano appunto un teatro di battaglia. Nessuno ritiene che valga la pena riprendere, semplicemente, in tutta calma il gruppo che è sul palco e che fa musica. E così cameramen si scatenano in zoomate e panoramiche. Anche i miseri resti della loro furia devastatrice non vengono risparmiati: li si frantuma ulteriormente con il montaggio. Di solito i film musicali non sono altro che attestati di incompetenza, di insofferenza e di disprezzo.
Monterey Pop (Id., 1968) non è in effetti il film musicale che si vorrebbe proprio vedere, ma per lo meno è meglio di tanti altri, non lascia del tutto insoddisfatti. Alcuni passaggi riescono a fissarsi limpidamente nella memoria, sicché si esce contenti dal cinema, soprattutto per aver visto le tre donne che vi compaiono. Grace Slick coi Jefferson Airplane, che battono tanti percorsi musicali senza raggiungere una meta, finché poi la voce di Grace intona una canzone che dà nuovo corso alla musica, e la potenzia. (...) Monterey Pop è stato girato da Pennebaker e Leacock nel giugno 1967, durante un festival pop a Monterey in California. Due anni prima di Woodstock, dell'isola di Whright e di Altamont, in un'estate in cui non era possibile entrare in un bar, in una gelateria o in una discoteca senza ascoltare "If you're going to San Francisco/Be shure to wear some flowers in your hair", di Scott Mc Kenzie. Anche il film comincia con questa canzone, e ciò che in realtà documenta è proprio il movimento dei figli dei fiori. È per questo che ci sono continui inserimenti di riprese degli spettatori, quelle mortali scene idilliache che risultano odiose anche nei cinegiornali sportivi. (Monterey Pop, Agosto 1970)
(...) Nei cinegiornali sui concerti dei Beatles o dei Rolling Stones venivano inquadrati di più i teenagers estasiati nelle prime file che i musicisti stessi: il primo piano di una ragazzina urlante in realtà è solo il rovesciamento del primo piano di un operatore disgustato, un'immagine difensiva, di paura, una formula di scongiuro. È un meccanismo talmente diffuso che i musicisti e la musica appaiono solamente in margine, serve per rimuoverli dall'immagine. Quando vengono inquadrati di nuovo gli Stones, si nota che avvertono questa ostilità. (...) La maggior parte dei film sulla musica rock procede in modo simile ai vecchi cinegiornali. Mostrano più il loro disinteresse, la loro disapprovazione o addirittura il loro disprezzo che non l'oggetto stesso. Quello che c'è da vedere, ossia i musicisti, gli strumenti, il palco, il lavoro, il piacere o la fatica di suonare, si considera che non valga la pena di mostrarlo così come è. Anche quando questo atteggiamento non è di completa disapprovazione, rimane il disprezzo degli short pubblicitari che parte dal presupposto che nulla è abbastanza buono da non dover essere rivalutato da chi filma. (...) La maggior parte dei film sulla musica pop pretendono di conoscerne il "linguaggio". Come quelle persone che ridono a alta voce delle barzellette proprio perché non le hanno capite, e si appropriano di questo linguaggio o di ciò che ritengono tale e immediatamente lo spacciano per proprio. È per questo che questi film, specie se si vendono come spot televisivi, sono quasi sempre balbuzienti, scimmiottanti. Vogliono riprodurre la tensione di un tipo di musica: lo zoom scatta avanti e indietro con un ritmo nevrotico. Ma proprio perché non è un movimento di macchina bensì una caricatura, l'immagine, degradata a ingranditore, perde tutta la sua forma e profondità, e non resta altro che il dolore di una ferita che viene continuamente aperta e richiusa. Vogliono imitare il movimento di un tipo di musica: la cinepresa riprende con tale velocità gli oggetti che, a causa delle inquadrature ravvicinate e non a fuoco, o delle panoramiche improvvise e incontrollate, i dettagli non risultano più percepibili se non con grandi sforzi; per non parlare poi delle inquadrature più grandi: come quando si tenta di leggere il giornale in macchina mentre si viaggia sul pavé. Vogliono riprodurre l'atmosfera di un tipo di musica: le continue dissolvenze incrociate sono caricate di effetti cromatici e retinati, e dopo un po' l'immagine non è altro che un unico effetto ottico, invadente e fine a se stesso, che elimina ogni forma di fantasia tranne appunto la propria. Vogliono riprodurre il ritmo di un tipo di musica: i tagli, seguendo il ritmo, si susseguono a distanza di secondi. Assemblando le singole parti però non si ricompone un insieme, come in un puzzle, anzi è proprio la frammentazione a emergere in primo piano: in un momento il batterista abbassa violentemente la bacchetta, il chitarrista solista alza il suo strumento, il cantante ha appena allontanato il microfono dalla bocca per prender aria, e il bassista suona qualcosa che non si sente, perché un basso lo si deve osservare un po' prima di sentire lo strumento e riconoscere le note sulle dita. Ci sono solamente dei particolari, non un palco con un complesso che suona. E se poi un film del genere non è stato nemmeno girato con più cineprese in sincronia, bensì in modo parzialmente sincrono, e le immagini perciò non si susseguono nemmeno nell'esatta sequenza cronologica, l'oggetto ripreso sparisce completamente. Le immagini sono del tutto false e ammettono apertamente il fine ultimo della distruzione del suo oggetto. Il fatto che questi metodi di distruzione sembrino a prima vista ricavati dalla musica stessa e quindi appropriati, non fa che dimostrare con ulteriore evidenza che chi fa un film del genere non solo non ha capito nulla della musica ma ha anche in scarsa considerazione il proprio lavoro. Si comporta come se la batteria fosse la cinepresa, ma in realtà entrambe le cose, batteria e cinepresa, gli sembrano un tritacarne. (...)
(Un genere che non esiste, settembre 1970)
(immagini dai film di Wenders "Lisbon Story" e "Il cielo sopra Berlino"; i musicisti sono rispettivamente Teresa Salgueiro dei Madredeus, e Nick Cave and The Bad Seeds)