domenica 12 agosto 2012

Vanità e affanni ( II )

Vanità e affanni (Larmar och gör sig till, 1997) Scritto e diretto da Ingmar Bergman. Fotografia di Tony Forsberg, Irene Wiklund, Per Sunding Montaggio di Sylvia Ingemarsson. Musiche di Franz Schubert. Costumi di Mette Möller. Effetti speciali di Lars Söderberg e di Leif Johannson (il treno). Mask makers: Mona Tellström-Berg, Maj-Britt Vifell. Interpreti: Börje Ahlstedt (Carl Åkerblom), Marie Richardson (Pauline Thibault), Erland Josephson (Osvald Vogler), Gunnel Fred (Emma Vogler, moglie di Osvald), Anita Björk (Anna Åkerblom, matrigna di Carl), Anna Björk (Mia Falk, l’attrice bionda), Agneta Ekmanner (il clown Rigmor), Johan Lindell (il dottor Johan Egerman), Gerthi Kulle (Stella, l’infermiera), e Ingmar Bergman, come comparsa (un paziente del manicomio).
Allo spettacolo: Peter Stormare (il proiezionista Petrus Landahl), Birgitta Pettersson (signora Hanna Apelblad); gli spettatori: Pernilla August (Karin Bergman, sorella di Carl), Lena Endre (la giovane maestra elementare Märta Lundberg), Folke Asplund (l’ex cantore Fredrik Blom), Alf Nilsson (Stefan Larsson, capo sovrintendente), Inga Landgré (signora Alma Berglund), Harriet Nordlund (signora Karin Persson), Tord Peterson (Algot Frövik, il signore artritico), Durata: 1h 59’

Altri dettagli sullo zio Carl, stavolta da “Lanterna magica”, un libro del 1992.
Ingmar Bergman, da “Lanterna magica”:
(...)Gli zii venivano talvolta in visita insieme alle loro terrificanti mogli. Gli uomini erano grassi, portavano la barba e parlavano ad alta voce. Le donne avevano ampi cappelli e puzzavano di zelo sudaticcio. Io mi tenevo nascosto quanto più potevo. Bisognava lasciarsi prendere in braccio, stringere, baciare, pizzicare. (...) I loro movimenti erano bruschi, i loro sguardi insicuri. Le donne fumavano. Vicino alla nonna sudavano per l'inquietudine, parlavano troppo velocemente e con voci taglienti. I volti erano truccati. Non assomigliavano a mia madre, benché fossero mamme.
Lo zio Carl, però, era diverso.
Seduto sul divano verde della nonna, lo zio Carl ne ascoltava i rimproveri. Era un uomo alto e piuttosto grasso; la fronte spaziosa era in quel momento corrugata per la preoccupazione, la calvizie era cosparsa di chiazze brunastre, sulla nuca ricadevano alcuni radi riccioli. Le orecchie erano pelose e rosse. La pancia prominente poggiava sulle cosce, gli occhiali, appannati dalle lacrime che stavano spuntando, nascondevano il dolce sguardo color pervinca. Le mani grasse e molli erano serrate tra le ginocchia. La nonna, piccola e diritta, era seduta sulla poltrona vicino al tavolo della sala. (...)
Io ero seduto per terra, nella stanza accanto. Insieme allo zio Carl avevo appena sistemato i binari del trenino ricevuto in regalo dall'arciricca zia Anna. La nonna era apparsa sulla porta e aveva chiamato lo zio Carl con un tono secco e gelido. Lui si era alzato con un sospiro, s'era infilato la giacca e aggiustato il gilè sulla pancia. Andarono a sedersi in sala. La nonna aveva chiuso la porta ma questa s'era riaperta da sola. Potevo seguire tutto quello che accadeva come su un palcoscenico.
La nonna parlava e lo zio Carl serrava e arrotondava le labbra. La sua testona s'incassava sempre più tra le spalle.
Lo zio Carl era, in verità, mio zio solo in parte in quanto era il maggiore tra i figliastri della nonna, e non molto più giovane di lei. La nonna era la sua tutrice: lui era debole di cervello, incapace di badare a se stesso. A volte lo portavano in manicomio ma per lo più abitava presso due signore di mezza età che si prendevano cura di lui.
Era devoto e affettuoso come un grosso cane, ma ora l'aveva fatta troppo grossa: una mattina s'era precipitato fuori dalla sua stanza senza calzoni nè mutande e aveva impetuosamente abbracciato zia Beda inondandola di baci appassionati e parole indecenti. Zia Beda non s'era lasciata prendere dal panico, con calma aveva stretto zio Carl nel posto giusto, proprio là dove le aveva detto il dottore. Poi aveva telefonato alla nonna.
Lo zio Carl era pentito e sul punto di mettersi a piangere. Era un uomo pacifico, ogni domenica andava alla chiesa missionaria insieme a zia Ester e zia Beda. Con il suo elegante vestito nero, lo sguardo dolce e la bella voce baritonale avrebbe quasi potuto essere uno dei predicatori. Se c'era qualcosa da fare dava una mano, come una specie di sagrestano volontario; era ben visto ai caffè pomeridiani e agli incontri di cucito, in occasione dei quali si prestava volentieri a leggere ad alta voce mentre le signore si dedicavano al loro lavoro.
In realtà lo zio Carl era un inventore. Sommergeva di disegni e descrizioni il Regio Ufficio Brevetti, ma con poco successo. Su un centinaio di proposte ne erano state approvate due: una macchina che rendeva tutte uguali le patate e una spazzola da toilette automatica.  Lo zio Carl era diffidente all'estremo. Soprattutto temeva che qualcuno gli rubasse le sue nuove idee. Per questo le avvolgeva nella tela cerata e se le infilava poi tra i calzoni e le mutande. La tela cerata poteva venir utile: lo zio Carl, infatti, aveva la mania di pisciarsi addosso. (...)  Io lo ammiravo e credevo alla zia Signe secondo la quale Carl era il più dotato dei quattro fratelli senonché Albert geloso, lo aveva picchiato sulla testa con un martello indebolendo così per il resto della vita l'intelligenza del povero ragazzo. Io lo ammiravo perché inventava sempre qualcosa di nuovo per la mia lanterna magica e il mio proiettore. Modificò il sostegno dei lastrini e l'obiettivo, inserì uno specchio concavo e fece degli esperimenti con tre o quattro lastrini di vetro mobili che si potevano sovrapporre l'uno all'altro e che dipingeva lui stesso. In questo modo creava degli sfondi mobili ai personaggi. Gli crescevano i nasi, si libravano in aria, fantasmi sorgevano da sepolcri illuminati dalla luna, navi affondavano, una madre sul punto di annegare teneva il suo bambino in alto, al di sopra della testa, ed entrambi venivano poi inghiottiti dalle onde.
Lo zio Carl comprava spezzoni di film a cinque centesimi il metro e li immergeva in acqua di Seltz calda così che l'emulsione venisse corrosa. Quando la pellicola s'era asciugata, lui vi dipingeva sopra direttamente delle immagini in movimento con l'inchiostro di china. A volte tracciava figure astratte che si trasformavano, esplodevano, si gonfiavano e si contraevano. Se ne stava seduto, il corpo massiccio chino sul tavolo da lavoro nella stanza riccamente ammobiliata, la pellicola distesa su una lastra di vetro opaco illuminata dal di sotto. Sollevava gli occhiali sulla fronte, nell'orbita destra incastrava una lente.
Fumava una pipa corta, ricurva e davanti a sé, sul tavolo, aveva una serie di pipe simili, già riempite e pulite. Io non potevo distogliere lo sguardo dalle piccole figure che si formavano sui quadratini della pellicola, velocemente e senza esitazioni. Mentre lavorava, lo zio Carl parlava, aspirava dalla sua pipa, parlava, sospirava, aspirava: «Ecco Teddy, il barboncino del circo, che fa una capriola in avanti, ci riesce, è bravo. Adesso il cattivo direttore del circo costringe il povero cagnetto a fare una capriola all'indietro. Teddy non ce la fa. Batte la testa sulla pista, vede le stelle, prendiamo un altro colore per le stelle, sono rosse. Adesso gli viene un bernoccolo sulla testa, anche questo è rosso. Non credo che zia Ester e zia Beda siano in casa, va' in sala da pranzo, apri il cassetto piccolo sulla sinistra del buffet, ci troverai un sacchetto di cioccolatini che hanno nascosto perché secondo Ma io non devo mangiare dolci. Prendi quattro cioccolatini, ma stai attento a non farti scoprire.»
Eseguo il mio compito e ricevo uno dei cioccolatini. Gli altri, li infila tra le labbra tumide, l'acquolina gli luccica agli angoli della bocca. (...)
Quando la nonna morì, fu la mamma a diventare tutrice. Carl si trasferì a Stoccolma e prese in affitto due piccole stanze da un'anziana signora che faceva parte di una setta religiosa e abitava in Ringvägen, vicino a Götgatan. Le vecchie abitudini furono riprese, ogni venerdì veniva alla canonica, riceveva biancheria pulita, un vestito lavato e stirato, e cenava con la famiglia. Il suo aspetto era immutato, il corpo era massiccio e rotondo come prima, il volto altrettanto roseo, gli occhi color pervinca e sempre così dolci dietro gli spessi occhiali.  Continuò instancabilmente a sommergere l'Ufficio Brevetti con le sue invenzioni. La domenica cantava i salmi alla chiesa missionaria. La mamma amministrava il suo denaro e gli dava un po' di soldi ogni settimana. Lui la chiamava «sorella Karin» e faceva di tanto in tanto dell'ironia sui suoi goffi tentativi d'imitare la nonna: tu cerchi di essere come la matrigna. Smettila. Tu sei troppo buona. Mammina era dura come il marmo.
Un venerdì arrivò la padrona di casa di Carl. Lei e la mamma parlarono a lungo, a quattr'occhi. La padrona di casa piangeva così forte che la si sentiva attraverso diverse pareti. Dopo qualche ora si congedò, con il volto rosso e gonfio per il pianto. La mamma andò da Lalla, in cucina, si lasciò cadere su una sedia e cominciò a ridere dicendo: zio Carl s'è fidanzato con una donna di trent'anni più giovane di lui. (...)
Era stato assunto come sagrestano alla chiesa di Sofia. Aveva abbandonato l'attività d'inventore: non era che un'illusione, sorellina. La fidanzata aveva passato la trentina, era piccola ed esile, le spalle erano ossute, le gambe lunghe e magre. Aveva denti larghi e bianchi, capelli color del miele raccolti in una crocchia, naso lungo e ben modellato, bocca sottile e mento rotondo. Gli occhi erano scuri ma avevano una luce intensa. Guardava il fidanzato con la tenerezza che dà il possesso, come per distrazione teneva la forte mano appoggiata sul ginocchio di lui. Era insegnante di ginnastica.
La tutela durata tutta una vita avrebbe avuto termine: le idee della matrigna sul mio stato mentale erano solo una delle sue illusioni. Amava il potere, doveva avere qualcuno da dominare. La sorellina non riuscirà mai a essere come la matrigna, per quanto si sforzi. È un'illusione.
La fidanzata osservava la famiglia con gli occhi scuri e luminosi, e taceva.
Qualche mese più tardi il fidanzamento fu rotto. Lo zio Carl fece ritorno alle stanze della Ringvägen e lasciò il posto di sagrestano alla chiesa di Sofia. Alla mamma confidò che non poteva rinunciare a portare a termine le sue invenzioni. La fidanzata aveva cercato di impedirglielo, s'erano messi a gridare ed erano venuti alle mani, Carl aveva sulle guance i segni dei graffi: credevo di poter smettere con le invenzioni. Era un'illusione. La mamma ridiventò tutrice, ogni venerdì zio Carl veniva alla canonica per cambiare vestito e biancheria, e cenava con la famiglia. La sua passione per il pisciarsi addosso aumentò.
Aveva poi un'altra e più rischiosa inclinazione. Quando doveva andare alla Biblioteca Reale o alla Biblioteca Cittadina, dove amava trascorrere le sue giornate, prendeva una scorciatoia percorrendo il tunnel della ferrovia al di sotto del quartiere Söder. Era pur sempre il figlio d'un ingegnere che aveva costruito la ferrovia tra Krylbo e Insjön, il treno gli piaceva. Quando gli passava accanto rombando nel tunnel, lui si appiattiva contro la parete, il tuono lo esaltava, la roccia vibrava, la polvere e il fumo lo inebriavano. Un giorno di primavera lo trovarono crudelmente dilaniato tra i binari. Nei pantaloni portava un involucro di tela cerata con dentro il disegno di un'apparecchiatura che avrebbe facilitato la sostituzione delle lampadine nell'illuminazione stradale.
(Ingmar Bergman, da “Lanterna magica”, pagg. 29-35, Garzanti 1992, traduzione di Fulvio Ferrari)
A questo punto si può anticipare la sorpresa che ci attende nella seconda metà del film: “Vanità e affanni” è un film sulla storia del cinema e sui suoi inizi ancora non ben distinti dal teatro. Cinema muto, perché siamo nel 1922: lo zio Carl era un inventore, e ha dei progetti anche per il cinema.
(continua)

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